Dietro una perdita, una possibilità

Nell'elaborazione della perdita, nella mobilitazione di quell'amore messo da parte, ritroviamo il senso perduto. Quel senso, rende tutto nuovamente possibile.

1 MAR 2022 · Tempo di lettura: min.
Dietro una perdita, una possibilità

Una perdita costante

La vita è attraversata da continue perdite. Potremmo dire che già nell'atto di venire al mondo, perdiamo qualcosa. Da quel momento in poi, in effetti, è nel mondo che bisognerà fare i conti, è nel mondo che bisognerà vivere; e diverse saranno le perdite che inevitabilmente si susseguiranno. Ma cosa intendiamo con questa parola?

Cominciamo col dire che la perdita non deve rimandare subitaneamente a qualcosa di negativo o traumatico. Infatti, come appena ricordato, già la nascita rappresenta una perdita data dal passaggio dal ventre materno al mondo. E dunque la perdita non può che rientrare tra i fatti più naturali della nostra vita. Basti pensare a quei passaggi così fisiologici dello sviluppo come lo svezzamento del bambino o l'inaugurazione nello stesso, della parola; così come l'abbandono dell'infanzia e dell'adolescenza per accedere all'età adulta, che per forza di cose implica il distacco - la perdita - dai genitori, dal nido familiare. Ma ancora, pensiamo al passaggio rispetto ai gradi superiori dell'istruzione, alla separazione dagli amici che imboccano strade diverse dalla nostra, alla morte dei nostri genitori, all'evaporazione della nostra giovinezza.

Vediamo come in tutto questo sia insita una perdita. Ovvero la necessità di lasciare uno stato precedente, al fine di giungere in una nuova condizione: in un inedito. Tutti gli eventi citati implicano un allontanamento, la perdita di qualcosa.

La vita è una continua elaborazione

Tenendo presenti gli esempi soprariportati, potremmo affermare come la vita sia contraddistinta da continue perdite, e in quanto tale, richieda una continua elaborazione. Ma cos'è, più precisamente, un'elaborazione?

Un attraversamento; un passare senza alcuna fretta per quelle fasi necessarie, per quel dolore che, solo se guardato bene in faccia, consentirà un'accettazione di ciò su cui non abbiamo avuto diritto di parola.

È innegabile come questo passaggio - questa continua elaborazione - sia difficile; ma allo stesso tempo dobbiamo anche riconoscere come solo quest'attraversamento condurrà alla liberazione: ovvero alla possibilità nuovamente possibile di giungere dall'altra parte e di fare della perdita non l'ultima parola, ma il ponte verso una pagina bianca, tutta da scrivere, della nostra vita. Ma per fare questo, ripetiamo, è necessario dare spazio e tempo a ciò che ci accade: dare voce al dolore che vuole parlare.

La psicoterapia come offerta

È indubbio come la psicoterapia, ad oggi, rappresenti un punto di partenza e resistenza. Partenza perché in alcuni casi può essere la prima occasione vera per guardare da vicino la nostra storia e la nostra sofferenza; resistenza perché è una pratica che non cede al frastuono della strada, né tantomeno alla deriva ipermoderna che vede l'essere umano come semplice sommatoria di organi o, peggio ancora, come un oggetto che può essere sostituito nel più breve tempo possibile. Che considera la persona, un oggetto privo di valore singolare. In questo senso la psicoterapia crea uno spazio protetto, in cui più nulla è sminuito e al centro ritorna il soggetto con la sua parola speciale ed insostituibile.

La pratica terapeutica, la costruzione di una relazione - diversa da tutte le altre, di una forma a ciò-che-è-stato, allontana di fatto un pericolo sempre insito nella perdita: l'identificazione con chi/cosa non c'è più. Dunque se da un lato consideriamo la fine delle cose, come un passaggio più che naturale, dall'altro riconosciamo altresì che la mancata elaborazione di questa fine può assumere un risvolto problematico che consiste, per l'appunto, nell'identificazione con la perdita stessa e nell'ingresso in quella condizione che definiamo depressione; in cui a perdersi, è proprio l'Io. Infatti, come scrive Freud: "Nel lutto, il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l'Io stesso" (Freud S., 1978, p. 128).

Identificarsi con la perdita, vuol dire essere totalmente inghiottiti dalla mancanza. Significa dare alla morte l'ultima parola; concedere ad essa noi stessi.

Amare per rinascere

Abbiamo detto che la perdita è insita alla vita. Di come "ogni gradino dello sviluppo implica qualche perdita" (Segal H., 1979, p. 128). Quando perdiamo qualcosa, entriamo in lutto. Dunque, la perdita richiede sempre un'elaborazione.

In questo senso, vediamo come il lutto non sia legato solo ad una perdita reale, fisica, ma anche ad una perdita astratta, ideale. Abbiamo in effetti ricordato come anche il passaggio dall'infanzia all'adolescenza o dal gesto alla parola, possano essere considerati come delle perdite: dal momento che implicano lo slittamento da una condizione all'altra.

Il lutto richiede una sosta in diverse emozioni. La tristezza così come la rabbia, sono un-dovuto, qualcosa che dobbiamo necessariamente sperimentare ai fini dell'elaborazione. Eppure, le stesse sono anche come la nebbia: non ci consentono di vedere oltre. Quando siamo lì, in quell'emozione, è come se dall'altra parte, ad aspettarci, non ci fosse nulla. Ma non è così. È "semplicemente" una fase, un qualcosa di necessario per giungere oltre.

Ma questo diviene vero solo ad un patto: solo nella misura in cui, ad un certo punto, mobilitiamo quell'amore messo da parte. Quell'amore che si fa coraggio; riconoscimento della credenza che un qualcosa d'Altro, oltre-tutto-questo, esiste. Quell'amore travestito da curiosità all'interno della quale ritroviamo un senso che rende tutto nuovamente possibile.

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Scritto da

Dott. Simone Evangelista

Bibliografia

  • Freud S., Lutto e melanconia, in Metapsicologia, Bollati Boringhieri, Torino 1978.
  • Segal H., Melanie Klein, Bollati Boringhieri, Torino 1979.

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