Nevrotici o borderline? La diagnosi differenziale

La letteratura sulla diagnosi differenziale da me studiata finora si concentra molto sul discernere i pazienti borderline da quelli psicotici. Ma come distinguere nevrotici e borderline?

22 NOV 2018 · Tempo di lettura: min.
Nevrotici o borderline? La diagnosi differenziale

La letteratura sulla diagnosi differenziale da me studiata finora si concentra molto sul discernere i pazienti borderline da quelli psicotici. Viene quindi preso in esame soprattutto lo spettro più grave dell'area borderline, mentre sembra apparentemente più immediato riuscire a fare una distinzione precisa tra nevrotici e border di più alto funzionamento. In realtà, a volte la difficoltà è proprio questa.

Alcuni pazienti sembrano infatti troppo "sani" per essere collocati in un'organizzazione di personalità di tipo borderline come viene descritta sui manuali. Al tempo stesso, però, alcuni aspetti della loro personalità, soprattutto in una prima fase del trattamento, non paiono del tutto congruenti con lo spettro nevrotico. Uno dei più importanti campanelli d'allarme consiste nel voler controllare la terapia attaccando il setting.

Un paziente che viene ai colloqui quando vuole, che arriva prima o dopo l'orario convenuto, che non si pone assolutamente il problema di avere un tempo limitato per parlare con il terapeuta, è effettivamente poco compatibile con un quadro nevrotico.

Nancy McWilliams, nel suo testo "La diagnosi psicoanalitica" (1994), scrive a proposito dei pazienti borderline:

"I pazienti borderline appaiono vittime di un dilemma: quando si sentono vicini a un'altra persona provano panico per paura di un eccessivo coinvolgimento e di un controllo totale; quando si sentono separati, vivono un abbandono traumatico. Questo conflitto centrale della loro esperienza emotiva si esprime nel loro continuo entrare e uscire dalle relazioni, compresa la relazione terapeutica, dove non è adeguata nè la vicinanza nè la distanza. Vivere con tale conflitto di base, che non risponde con immediatezza agli sforzi interpretativi, è estenuante per i pazienti borderline, per i loro amici, i loro familiari e i terapeuti." (Pag. 83-84)

In effetti può capitare - ed è un fatto abbastanza irritante - che questo tipo di pazienti, dopo un'assenza, si lamentino di aver sentito molto la mancanza della terapia e di essere stati malissimo. Il pensiero del terapeuta può essere: perchè allora non sei venuto al nostro appuntamento? Quasi non si crede al paziente, ma si pensa anzi che, con le sue parole, egli stia solo cercando di manipolare e compiacere.

In realtà, esplorando con i pazienti il loro dilemma, spesso si scopre che essi non solo dicono la verità, ma anzi cercano, con questo tipo di comunicazioni, di far comprendere al terapeuta il loro modo di funzionare forse più patologico. Un altro campanello d'allarme che bisogna tenere in considerazione quando si cerca di capire se la persona che si ha davanti sia nevrotica o border, è un vissuto di esperienza personale estremamente frammentato. Il vissuto soggettivo è di non avere mai concluso nulla e di non avere dunque "niente in mano" che aiuti a definirsi.

Come scrive la McWilliams (La diagnosi psicoanalitica, 1994), un buon modo per orientarsi in questo è far caso come reagisce il paziente agli interventi del terapeuta:

"A volte è solo dopo un certo periodo di psicoterapia che il terapeuta si rende conto che un determinato paziente ha una sottostante struttura borderline. Di solito il primo indizio è che interventi che il terapeuta ritiene utili vengono recepiti come attacchi. In altre parole, il terapeuta continua a rivolgersi a un io osservante, che però il paziente non ha: l'unica cosa che sa è che vengono criticati alcuni aspetti del Sè. Il terapeuta continua a cercare di stabilire quel tipo di alleanza di lavoro che è possibile con i pazienti di livello nevrotico e continua a collezionare fallimenti." (Pag. 83)

Parlando invece di difese, sicuramente quelle più utilizzate dai pazienti con organizzazione di personalità border, sono la scissione, la negazione, l'acting out e l'identificazione proiettiva.

Utilizzo il testo di Glen O. Gabbard, "Psichiatria Psicodinamica" (2005), per descriverle.

  • Scissione: "Compartimentalizzazione delle esperienze del Sè e dell'altro tale da rendere impossibile un'integrazione. Quando l'individuo si confronta con contraddizioni relative a comportamenti, pensieri o affetti, considera le differenza con blando diniego o indifferenza. La scissione previene il conflitto generato dall'incompatibilità di due aspetti polarizzati di sè o di altri."
  • Negazione: "Disconoscimento di dati sensoriali che permette di evitare la consapevolezza di aspetti della realtà esterna difficili da affrontare."
  • Acting out: "Messa in atto impulsiva di desideri o fantasie inconsce al fine di evitare affetti dolorosi."
  • Identificazione proiettiva: "Contemporaneamente un meccanismo di difesa e una comunicazione interpersonale, questo fenomeno coinvolge comportamenti tali da generare una sottile pressione interpersonale su un altro individuo, affinchè assume le caratteristiche di un aspetto del Sè o di un oggetto interno che vengono in lui proiettate. L'individuo che costituisce il bersaglio della proiezione incomincia quindi ad avere comportamenti, pensieri e sentimenti che sono in accordo con quanto è stato proiettato." (Pag. 35-36)

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Riguardo alla scissione, essa può risultare evidente quando il paziente parla di episodi del suo passato, che chiunque definirebbe come molto dolorosi, con un atteggiamento pressochè indifferente. Se il terapeuta fa notare la stranezza di questo atteggiamento, il paziente non pareva colpito nè riesce a dare una spiegazione soddisfacente.

La negazione, invece, si esprime ad esempio tutte le volte che si cerca di esplorare qualche episodio particolarmente doloroso del passato o del presente.

L'acting out consiste generalmente in agiti anche piuttosto dirompenti da parte del paziente, che egli non pare in grado di controllare e di cui spesso, in seguito, si pente.

L'identificazione proiettiva, infine, può essere spesso diretta al terapeuta, permettendogli -se correttamente interpretata- di porsi delle domande più specifiche sul funzionamento del paziente.

Il paziente, infatti, spesso fa sentire il terapeuta proprio come si sente egli stesso. Questo è un indicatore prezioso perchè gli consente di capire più cose sulla sua esperienza di quante egli non ne racconti a parole, anche se questo tipo di difesa può essere a volte molto difficile da tollerare.

In conclusione, occorre tenere presente che fare la diagnosi differenziale non è sempre semplicissimo. Spesso si ha l'aspettativa di trovare nella realtà i "pazienti puri" che vengono descritti nei manuali. Se c'è questo è nevrotico, se manca questo è border, se delira è psicotico.

Un modo molto semplicistico di ragionare. Ma il trovarsi a lavorare con pazienti in carne e ossa porta presto a rendersi conto che, quando si ha a che fare con individui tutti diversi, e ognuno con mille tratti di personalità, non è sempre facile osservare e dare la dovuta importanza alle "cose giuste". Questo si collega al l'importanza di adattare la tecnica al paziente che si ha di fronte.

Non funziona tutto con tutti, ma non si può nemmeno procedere lasciandosi guidare solo dal buon senso o dall'istinto. La diagnosi differenziale è davvero il primo mattone da mettere nella costruzione di un trattamento psicoterapico, e anche quando si è ragionevolmente convinti di averla fatta bene, bisogna sempre rimanere vigili e prendere in considerazione l'idea di aver commesso un errore.

Per fortuna, in questo i pazienti ci aiutano: occorre però saperli ascoltare.

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Scritto da

Dott.ssa Federica Casale

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