CLAUSTROFOBIA DEL FUTURO: LA PAURA DI ESSERE NESSUNO - parte 1

La paura dei luoghi chiusi può essere paura dell'intimità con se stessi e gli altri. Letteratura e mitologia possono aiutarci a superarla

22 GEN 2018 · Ultima modifica: 25 GEN 2018 · Tempo di lettura: min.
CLAUSTROFOBIA DEL FUTURO: LA PAURA DI ESSERE NESSUNO - parte 1

11 gen 2018

CLAUSTROFOBIA DEL FUTURO: LA PAURA DI ESSERE NESSUNO

Ivano Calaon

"Guardando lo zero non si vede nulla,

ma guardando attraverso lo zero si vedrà il mondo"

(Robert Kaplan)

Lo scheletro di una fabbrica, una porta murata, uno schermo spento, una casa abbandonata, le sedie impilate dopo una festa, muri e filo spinato…una galleria di cui non si vede l'uscita. Immagini per raccontare le emozioni della claustrofobia del futuro. La claustrofobia è la paura dei luoghi chiusi, è la sensazione di essere presi in una trappola mortale, la certezza che se si entrerà "là dentro" non se ne verrà più fuori. E' angoscia perché "quel posto" sarà la tomba. Questo luogo può essere anche il futuro, se immaginiamo il futuro come un luogo interiore, uno spazio della fantasia in cui proiettarci in avanti nei giorni, nei mesi, negli anni, dove provare a indovinare cosa potrà accadere, cosa sarà di noi.

I tempi di crisi moltiplicano i non-luoghi, quegli spazi pubblici e di transito che secondo Augè [1] sono standardizzati, privi di identità, di storia e dove non è possibile intrecciare relazioni se non di tipo strumentale. Centri commerciali, stazioni, aeroporti sono esempi di non luoghi, come anche i quartieri degradati,i siti produttivi dismessi e i centri di accoglienza per profughi. E poiché anchel'anima ha una sua geografia, nei momenti di crisi individuale, allo stesso modo, si moltiplicano i non-luoghi interiori, quelle parti di noi che evitiamo perché troppo affollate oppure troppo pericolose e desolate. Un "segnale stradale" che indica la presenza di questi particolari non-luoghi è, ad esempio, quando attribuiamo tutte nostre le disgrazie alla famiglia d'origine, al carattere ("Non posso farci niente, sono fatto così"), a un lavoro frustrante, a una relazione di coppia faticosa, alla genetica, agli ormoni, alla società, al destino, al partner che se ne è andato o non mai arrivato, ecc. Qualsiasi cosa, pur di evitare di riconoscere il ruolo che abbiamo avuto nell'essere diventati ciò che siamo.

Ci sono anche non-luoghi apparentemente molto allegri, iparchi a tema come Disneyland o Gardaland. Queste fabbriche del divertimento sono in genere popolate da addetti che indossano i costumi di Topolino, Minnie o Prezzemolo. Quelli che potremmo definire delle "non persone", lavoratori che svolgono dei non-lavori: non conta chi c'è dentro il costume, non serve una particolare competenza o esperienza, basta che il travestimento venga riempito da qualcuno e che il personaggio stia lì a farsi fotografare con i turisti.

La claustrofobia del futuro, dal punto di vista soggettivo, può perciò essere definita come la paura di diventare "nessuno", una non-persona, un essere simile agli addetti dei parchi divertimenti o di call center, un guscio sorridente chepuò nascondere dentro di sé rabbia, frustrazione, sfruttamento. Una situazione in cui si crea un conflitto esplosivo tra la scintillante immagine esteriore e la cupa realtà interna.

Lo stato dell'arte dei non luoghi è rappresentato dai social media (facebook, instagram, ecc.),che ormai tendono sempre più ad assomigliare a infiniti parchi divertimento virtuali, ma con effetti molto reali, e non sempre piacevoli, sulla vita (o non-vita) delle persone. Da un punto di vista psicologico i social media possono generare una visione claustrofobica del futuro perché esaltano tre aspetti:

  • Prestazione
  • Esibizione
  • Auto-sfruttamento

Claustrofobia e prestazione

Nel mondo dell'arte il tema della performance ormai da diversi decenni è diventato centrale, sempre di più l'opera è l'artista stesso, con la sua azione, il suo corpo, la sua presenza, e di conseguenza la ricerca si è spostata dal prodotto, dai contenuti dell'arte ai processi creativi che la rendono possibile. Il linguaggio sportivo imperversa nei discorsi politici e aziendali, dove è imprescindibile "fare squadra", "scendere in campo", "vincere sfide" per non parlare di come praticamente qualsiasi ruolo anche blandamente di responsabilità (dall'insegnante di canto al capo reparto) sia diventato coach, allenatore il cui compito è appunto quello di massimizzare la prestazione e di lanciare verso il successo.

Per emergere in un social network occorre mettere in scena una prestazione che colpisca, diventi virale, generi "like" e condivisione. Si crea così l'illusione di una sorta di democrazia della creatività e dell'autorealizzazione, la possibilità di crearsi la strada verso il successo direttamente dal salotto di casa propria. L'altra faccia della medaglia di questo neo-paese dei balocchi è il dilagare dell'ansia da prestazione, che non è più solo un problema maschile dell'intimità sessuale, ma paura costante della propria inadeguatezza di fronte all'imperativo che "niente è impossibile".

Claustrofobia ed esibizione

La performance per sua natura richiede un pubblico, qualcuno che assista a ciò che viene rappresentato, che applauda o al limite lanci i pomodori. Se con "Il grande fratello"è stata sdoganata l'esibizione senza competenza, con i cooking show (Masterchef &C.) e i talent show (Xfactor, Italians got talent, ecc.) la prestazione stessa è la star. Inoltre Youtube ci ha reso tutti potenzialmente filmaker, perfomer,siamo diventati "spett-attori", spettatori e attori contemporaneamente, pubblico e protagonisti di storie che rischiamo però di raccontare solo a noi stessi, perché come diceva Massimo Troisi a proposito dei libri "…voi siete in tanti a scrivere, io uno solo a leggere!".

Un'esibizione senza qualcuno di fronte a cui esibirsi è l'inferno dell'artista e in assenza di solide basi interiori, la paura di non avere audiencepuò portare a forme estreme di compiacenza. E' come costruire un edificio senza fondamenta e senza strutture portanti, unicamente di facciata. Un'identità basata solo sull'esterno, sulla maschera che viene usata per farsi riconoscere nel mondo sociale: conta solo ciò che piace agli altri, il soggetto non è in grado di capire cosa desidera e cosa vuole.

Claustrofobia ed auto-sfruttamento

L'auto-sfruttamento è un elemento centrale nel mondo del lavoro contemporaneo. Che si tratti di un ciclista di Foodora o di un professionista di successo, un demone interiore spinge a fare costantemente, a pedalare più velocemente, a lavorare più ore, a rispondere alle mail anche la notte o nei weekend.Secondo Marx lo sfruttamento era la parte di valore del lavoro che il padrone non riconosceva al lavoratore, perché il lavoratore vende il suo tempo mentre il capitalista vende prodotti che incorporano il valore del tempo del lavoratore. In un tempo in cui i padroni sono evaporati, il capitalismo digitale ci lascia in balia di padroni interiori autoritari e privi di scrupoli che niente hanno da invidiare a quelli descritti da Marx ed Engels. I social network sono basati sull'autosfruttamento della nostra vita. Se all'epoca del capitalismo meccanico era il tempo l'oggetto di sfruttamento, ai giorni del capitalismo digitale è l'intimità ad accendere l'avidità dei nostri padroni interiori.In una curiosa forma di schizofrenia siamo ossessionati dalla privacy, ma al tempo stesso facciamo a gara, siamo in competizione nell'usareciò che ci è più caro per ottenere consenso, riconoscimento, visibilità. Sfruttato e sfruttatore coincidono. Ricordi, vacanze, familiari, animali domestici, niente viene salvato per alimentare il più grande spettacolo di varia umanità mai stato allestito, il massimo della libertà espressiva coincide con il massimo dell'ingabbiamento e del conformismo, portando alle stelle i profitti pubblicitari dei giganti digitali della Silicon Valley. Si crea così uno sfondo di depressione latente che non deriva da un eccesso di responsabilità e di iniziativa ("Non dovevo farlo"), ma dalla sensazione di non riuscire a corrispondere all'obbligo assunto con sé stessi e con le (presunte) attese degli altri ("Non ce la farò mai").

- Continua, vedi parte 2 -

CLAUSTROFOBIA DEL FUTURO: LA PAURA DI ESSERE NESSUNO - parte 1

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Scritto da

CSTCS - Centro Studi per la Terapia della Coppia e del Singolo

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Commenti 1
  • Francesco C.

    Interessante articolo, anche perché su internet ne ho trovati davvero pochi. La ricerca è nata proprio dopo aver speso più di 30 minuti su Facebook, ho percepito una sensazione claustrofobica. Non è la prima volta e come scritto nell'articolo mi capita anche nel vedere talent show e programmi di carattere simile. Sarebbe interessante approfondire l'argomento ma soprattutto mi chiedo della gente che riesce a stare immersa in queste realtà se è da considerare "asintomatica", incosciente o davvero non riscontrano nessun tipo problema.

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