Correggiamo la distanza professionale?

Inviata da Elena · 2 feb 2016 Psicoanalisi

Premetto: non sto chiedendo di instaurare a tutti i costi un'amicizia o una confidenza eccessiva, perché, anche solo umanamente, una persona ha dei limiti di tempo e di energie. Tuttavia, perché continuare a mantenere un distacco che porta, inevitabilmente, ad una situazione di dipendenza nei confronti di un terapeuta? Il transfert avviene continuamente, anche nella vita di tutti i giorni e con le persone che conosciamo: che senso ha, quindi, temerlo, soprattutto dal punto di vista del professionista? L'empatia è necessaria per mettersi nei panni di chi si ha davanti: perché negarsi anche solo un gesto di umanità? Questo non farebbe dello psicologo un burattino in mano al paziente, ma un essere umano con delle competenze in più, in grado di gestire al meglio una relazione terapeutica. E, di conseguenza, il paziente imparerebbe a gestirla anche nella sua vita quotidiana.
Ho conosciuto molti psicologi che entravano in contraddizione con i loro doveri, le loro parole e i loro gesti, e mi hanno creato più disagi di quanti già ne avessi. Mi ha guarita solo uno che, in passato, ha manifestato un atteggiamento umano nei miei confronti, pur consapevole del suo ruolo. per il resto, ho visto sempre e solo gli stessi atteggiamenti, lo stesso modo di porsi e di parlare da parte di psicologi uomini e donne, ho sentito le stesse domande, ho visto il solito tentativo di castrare la parte emotiva e irrazionale a favore di quella mentale.
Questo tipo di psicoterapia è finito, a mio avviso: come ho detto all'inizio, pone il paziente su un livello inferiore e crea dipendenza nei confronti del terapeuta, il quale diventa una sorta di deus ex machina con la verità in tasca. Non è una pacca sulla spalla, un abbraccio, un darsi del tu a creare un legame, ma la quotidianità e molte altre cose che possono essere comunque tenute lontane dal rapporto terapeutico. Invece persiste la paura da parte dello psicologo di potersi affezionare, oppure la mania di grandezza nel credere di sapere, o ancora il desiderio di mantenere intatta questa sudditanza psicologica che, al di là dei soldi, fa del terapeuta una sorta di figura quasi magica e irraggiungibile, incapace di provare un'emozione e costantemente rivolta al desiderio di una fredda risoluzione.
Vorrei leggere i pareri degli psicologi che vedranno questo mio scritto e capire quanti davvero hanno compreso quello che intendo dire con le mie parole.
Detto questo: ho 42 anni e credo che si debbano fare dei reali cambiamenti in questa professione, o altre figure la offuscheranno, poiché più accessibili e predisposte al rapporto umano. E specifico: umano. Non amoroso, né amichevole a tutti i costi.

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Miglior risposta 2 FEB 2016

Gentile Elena,
credo che lei ha le idee un pò confuse su quanto scrive.
Innanzitutto non si capisce perchè mette in relazione quello che chiama "distacco" e che io intendo come "neutralità" cioè mancanza di collusione col paziente (o con qualche suo familiare) con una ipotetica situazione di dipendenza.
Chi le ha detto poi che il terapeuta teme il transfert? A questo punto mi viene il dubbio che lei non sappia cos'è il transfert!
Inoltre lei confonde l'empatia con il gesto di umanità, con la pacca sulla spalla, l'abbraccio o il darsi del tu tra paziente e terapeuta!
Lei dice di aver conosciuto molti psicologi intendendo forse dire che ha fatto molte psicoterapie : sono contento che ne abbia trovato uno che l'ha guarita!
Lei parla della paura dello psicologo di potersi affezionare, di manie di grandezza, di desiderio di mantenere la sudditanza psicologica del paziente, di incapacità di provare un'emozione etc. etc.
Mi scusi ma credo proprio che lei non sa di cosa parla!...
Cordiali saluti.
Dr. Gennaro Fiore
medico-chirurgo, psicologo clinico, psicoterapeuta a Quadrivio di Campagna (Salerno).

Dott. Gennaro Fiore Psicologo a Quadrivio

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13 FEB 2016

Gentile Elena
Leggendo la sua missiva ho l'impressione che lei abbia le idee alquanto confuse.Il transfer e il Controtransfert sono momenti importantissimi ai fini della terapia
In tutto questo,però,non entrano in gioco i sentimenti del terapeuta.La professionalità dello Psicologo passa anche attraverso questi momenti,dove il transfert può anche essere inteso come profonda stima e senso di fiducia:questi sentimenti diventano rafforzativi affinchè il Paziente si affidi con fiducia alle cure del suo terapeuta.
Dr.LUCIANO DI RIENZO.

Luciano Di Rienzo Psicologo a Avellino

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10 FEB 2016

La relazione terapeutica è, come ogni relazione, basata su elementi di rispecchiamento, calore, stima, empatia, conflitto, credenze, sentimenti e tanto altro che ha a che fare con la personalità del paziente e con quella del terapeuta. La terapia è un lavoro di co-costruzione fatto non dal terapeuta ma insieme con il terapeuta che permette di porre in evidenzia gli elementi significativi della storia e delle emozioni del paziente per produrre un cambiamento. Detto questo, se l'empatia del professionista, la sua capacità di "stare emotivamente con il paziente" è fondamentale per il buon esito della terapia, è altrettanto vero che è necessario mantenere una distanza professionale che permette di "salvare" il rapporto fra paziente e terapeuta. Lei si farebbe fare un'operazione chirurgica delicata dal suo migliore amico o da un suo caro, sapendo che sarebbe meno lucido ed obiettivo nelle sue decisioni? Ciò non toglie, certo, che non tutti gli psicologi possono essere ottimi professionisti per tutti i pazienti. Il professionista migliore è quello che riesce ad instaurare un'ottima alleanza terapeutica con il paziente, cioè colui che il paziente sente vicino empaticamente pur mantenendo il "lei".
Cordiali saluti
dott.ssa Cristina Leonardi

Dott. ssa Cristina Leonardi Psicologo a Roma

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9 FEB 2016

Gentile Elena, comprendo il suo bisogno di umanità nella relazione con il terapeuta che è più che legittimo. La relazione terapeutica è uno strumento fondamentale per la guarigione del paziente e sono d'accordo con lei rispetto al fatto che molti psicologi possono trincerarsi dietro un atteggiamento di apparente distacco (solo apparente) a scopo difensivo. Resta il fatto, però, che i limiti imposti dal setting terapeutico (evitare il contatto fisico, evitare un rapporto d'amicizia, ecc.) sono assolutamente funzionali alla riuscita della terapia. Non capisco, pertanto, perchè sostenga che il distacco del terapeuta favorisca la dipendenza del paziente: al contrario, l'asetticità, più che il distacco, ha lo scopo di lasciare il paziente libero di esprimere il suo mondo interno ed anche eventuali sentimenti di ambivalenza ed ostilità nei confronti del terapeuta stesso, utilissimi per comprendere meglio l'inconscio del paziente. Al contrario, un eccessivo coinvolgimento da parte del terapeuta può contaminare e condizionare i sentimenti del paziente e favorire una dipendenza che resterà tale, non essendo finalizzata ad un'evoluzione.
Cordiali saluti,
Dott.ssa Ilaria Corleto

Dott.ssa Ilaria Corleto Psicologo a Salerno

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9 FEB 2016

Gentile Elena, ho letto il suo contributo e anche quelli dei colleghi (che condivido sebbene siano di orientamenti diversi fra loro e dal mio). Le risponderò con una frase che sentii pronunciare per la prima volta da Paul Watzlawick.
"Dal suo punto di vista ha perfettamente ragione".
Cordiali saluti.
Dr. Massimo Botti

Dott. Massimo Botti Psicologo a Genova

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3 FEB 2016

Gentile Elena,
capisco il suo punto di vista e la ringrazio per averlo espresso perché questo ci da modo di vedere come certi comportamenti possano essere "letti" dai pazienti, che magari non sono i nostri, e ci da la possibilità di spiegare loro perché accade.

Quello che Lei vede come distanza professionale in realtà è una delle modalità che fornisce l'obiettività per comprendere il mondo del paziente.
Certamente non deve essere esagerata, tanto da dare la sensazione di freddezza, ma la troppa empatia, al contrario di quello che si pensa, non aiuta nella relazione terapeutica.

Lo psicologo non è un amico.

E' persona che deve comprendere le emozioni del paziente, ma poi deve concentrarsi sulle modalità con le quali poterlo aiutare concretamente a trovare soluzioni che possano modificare il suo modo di percepire e dare significati alle cose, i suoi comportamenti e le sue relazioni.

In realtà la tecnica deve esserci e quando un paziente parla lo psicologo è spesso concentrato per farsi un quadro delle logiche che segue (c'è chi li chiama schemi mentali), dei significati, del suo passato, delle emozioni che accompagnano i suoi pensieri, ecc..;

Con la sola empatia non solo non si risolve molto (il paziente si sente capito, accolto, ma non c'è alcun cambiamento nel suo modo di relazionarsi con gli eventi e con gli altri), e c'è persino il rischio che il conforto eccessivo possa addirittura rinforzare alcune modalità di vedere se stessi (in alcuni casi, come vittime senza possibilità di uscita, o confortati rispetto alle loro modalità di affrontare le cose).
Inoltre c'è sempre da stare attenti al burnout, un rischio per le persone che operano in ambito sanitario.

L'equilibrio fra l'empatia e la distanza terapeutica (personalmente non userei la parola distacco) è quindi una delicata convivenza che si raggiunge attraverso lo studio e l'esperienza.

In definitiva, accolgo la sua critica e la considero un punto di vista da tenere presente per non esagerare, arrivando al distacco emotivo.

Le chiedo però di fare altrettanto, cioè di aprirsi a considerare anche altre problematiche e punti di vista differenti, rispetto a quello che ha qui esplicitato.

Cordialmente,
Dott.ssa Anna Patrizia Guarino. Psicologa, Roma

Dott.ssa Anna Patrizia Guarino Psicologo a Ardea

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3 FEB 2016

Cara
nel tuo scritto poni l'accento su questioni molto importanti e, peraltro, molto discusse fin dagli arbori della nascita della psicologia moderna e della psicoanalisi in particolare.
Si è sempre discusso e parlato del posto che debbano avere le emozioni e gli aspetti cognitivi nel processo terapeutico.
Ci sono stati psicologi più propensi ad approccio emotivo e altri più cognitivi.
Anche la questione inerente la "distanza" necessaria tra terapeuta e paziente (necessaria alla terapia) è stata teorizzata in modi diversi, potrei citare nomi e teorie di psicoanalisti che fondarono diversi orientamenti, ma qui non finiremmo più.
Dirò quindi la mia modalità, dopo trent'anni di esperienza.
Credo che occorra ricercare e trovare costantemente un equilibrio tra "l'avvicinamento" e il mantenere una "distanza" tra paziente e terapeuta.
Non è una cosa che si decide una volta e poi basta, piuttosto varia sempre a seconda del tipo di paziente con cui si interagisce, a seconda del tipo di problematica che viene posta e, a seconda, dello stadio in cui si trova la terapia.
In linea di massima però credo in un approccio molto empatico al paziente, credo anche nel valore di semplici gesti di accoglienza e di affetto.
Se all'inizio la psicoanalisi ha comportato una forma di "avvicinamento" tra medico e paziente (progresso perlopiù voluto dalle pazienti donne) rispetto alla "distanza" che comportava il metodo ipnotico, nell'attuale panorama di oggi, in linea di massima concordo con te che questa "distanza" possa e debba essere ulteriormente ridotta,anche in considerazione del fatto che le persone sono molto più istruite, leggono, si informano e hanno capacità critiche molto maggior di quanto non fosse un tempo.
Tuttavia, penso che spetti al terapeuta una valutazione attenta in merito all'atteggiamento da tenere e sul "da farsi" in quella particolare situazione e con quel particolare paziente (come ho detto sopra la valutazione e l'equilibrio è da ricercarsi caso per caso).
Consideriamo sempre che il terapeuta agisce, in conformità al suo credo, al fine di beneficiare il paziente e di scegliere, a tal fine, la modalità.
La psicoterapia è un processo molto complesso e molto delicato.
A volte "l'agire terapeutico" può risultare difficile da comprendere dall'esterno (dal punto di vista del paziente) perché molto basato su necessità tecniche e scelte del terapeuta.
Il terapeuta deve suscitare fiducia ed essere recepito come persona autentica e, autenticamente, interessata al benessere dell'altro (e questo penso che il paziente possa recepirlo).
Questa fiducia deve crearsi ed essere mantenuta anche qualora non si comprenda del tutto il perché di un determinato agire.
Comunque sia, personalmente, nella mia modalità (che pure mi è stata insegnata e indicata dai miei Maestri) cerco sempre di spiegare anche il perché e percome si fa una determinata cosa e lascio aperto uno spazio di confronto.
Devo dire che in tanti anni il mio "avvicinamento" e il tenere il paziente in parità, sul piano umano (poi è chiaro che io ho un sapere tecnico in più, altrimenti perché sarei pagata?), il fatto di usare spesso il tu, e l'essere affabile, ...devo dire, dicevo, che non ho mai recepito mancanza di rispetto da parte di nessun cliente-paziente.
Un caro saluto e grazie per la domanda anche se difficile da rispondere.
Dott. Silvana Ceccucci Psicologa Psicoterapeuta.

Dott.ssa Silvana Ceccucci Psicologo a Ravenna

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3 FEB 2016

Buongiorno Elena,
sono dispiaciuta nel leggere la sua opinione sugli psicologi. Non penso che sia giusto attribuire queste caratteristiche a tutti gli psicologi. Lei confonde il calore umano con l'empatia. Ogni terapeuta è "affezionato" ai suoi pazienti. Ma non nel modo in cui lo intende lei. La terapia deve avere un buon esito per un miglioramento generale delle condizioni psicologiche del paziente. Non penso che lei dal suo ortopedico o dal suo cardiologo cerchi le pacche sulle spalle o gli abbracci, cerca sicuramente una risoluzione della sua patologia. Ovviamnete ho fatto un esempio un po' estremo, visto che noi ci occupiamo di qualcosa di più profondo, ma era per farle capire che il miglior psicologo è colui che fa star meglio il paziente.
Ognuno poi ha modalità e capacità relazionali diverse. Lo psicologo non è un dio e l'ultima cosa che vuole è far dipendere da sè i propri pazienti.
Spero di averle espresso la mia opinione in maniera chiara.
Un caro saluto

dott.ssa Miolì Chiung
Studio di Psicologia Salem
Milano - Agrate - San Donato M.se

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