Relazione paziente terapeuta oltre il termine della terapia?
Salve, ho intrapreso una psicoterapia lunga circa 4 anni, con appuntamenti fissi e regolari (1 alla settimana) per i primi 2 anni e mezzo circa, e successivamente con incontri gradualmente sempre più distanziati l’uno dall’altro (1 volta ogni 2 o 3 mesi per tutto il 4° e ultimo anno).
Ho puntualizzato questo aspetto perché la mia terapeuta, alla fine di quel mio 4° anno di terapia, è andata in pensione e ha cessato l’attività. Io ho avuto l’impressione che volesse in qualche modo “portarmi avanti fino alla fine” e chiarisco ora meglio questa mia espressione.
I nostri incontri avevano la regolarità citata qui sopra e avevano questa caratteristica, chiamiamola “fuori norma”: duravano sistematicamente oltre i 50 minuti pattuiti, per dilatarsi ad un’ora e mezza /due ore (a seconda delle volte) di colloquio. Questo fatto ha avuto inizio improvvisamente (attorno al 2° anno) ed è sistematicamente proseguito, ad ogni seduta, fino al termine della psicoterapia.
La prima volta che successe, si stava discutendo di qualcosa di molto coinvolgente e lei mi ha invitato a proseguire, lasciando perdere l’orologio (la frase esatta era sempre la stessa : “Non si preoccupi, ho tempo.”).
Ad ogni seduta, allo scadere del 50° minuto, tra noi si attuava sempre lo stesso identico rituale: io mi interrompevo e dicevo: “E’ scaduto il tempo.”, e lei rispondeva “Non si preoccupi, ho tempo.”
Mi rendevo conto che c’era qualcosa di strano in quella modalità di relazione, ma come ho sempre ripetuto esplicitamente (e dolorosamente anche) alla mia psicoterapeuta: io “Mi sentivo dipendente da lei.” e anche al contempo “Che era lei a condurre il gioco.”
Ho usato il termine “dolorosamente” perché vivevo un conflitto: bisognosa della sua figura che mi fosse di riferimento (mi è mancato l’appoggio dei genitori da sempre – mia madre è malata di mente con invalidità del 100%, mio padre un uomo violento con cui ho sempre avuto un rapporto molto conflittuale e sfilacciato) desideravo intensamente che lei mi “concedesse quello spazio”.
Ma al contempo sapevo che c’era qualcosa che andava contro di me in quella dinamica.
Ma essendo io paziente, mi fidavo e non sapevo esattamente cosa pensare. Non ho mai detto esplicitamente: forse questo è sbagliato. Non l’ho mai fatto.
Ci tenevo moltissimo a pagarla con regolarità: le dicevo ogni singola volta: “Questo è il mio modo per sdebitarmi” e lei rispondeva ogni singola volta “Ma non c’è problema…anche se volesse pagarmi in futuro…Lo sa, per me i soldi non sono più un problema, ne ho a sufficienza”.
Ora, a psicoterapia finita, ed avendo io preso la giusta distanza dalla relazione, capisco che il mio pagarla con quella puntualità e precisione era un modo forse non del tutto conscio per tentare di ripristinare ruoli più inquadrati.
Mi scuso per la lungaggine della premessa, arrivo al punto: durante il 4° anno avevo la sensazione durante i colloqui di “parlarmi addosso”, come se lei non fosse più disponibile a partire da quello che le dicevo per lavorarci su. Era come se non volesse aiutarmi a fare la restante parte di lavoro che rimaneva. Così un giorno le dissi con grande difficoltà che mi sembrava non avessimo più nulla da dirci e lei ripose che anche lei pensava lo stesso. Alla fine del 4° anno, dopo mesi in cui portammo avanti la situazione con appuntamenti sporadici, lei andò in pensione.
Ho scritto all’inizio che mi sembrò che intendesse “portarmi avanti fino alla fine” perché accadde che mi chiese di frequentarci al di fuori dello studio perché, diceva, “Lei ormai era in pensione e poteva fare quello che voleva”. A me non pareva vero: così bisognosa della sua presenza, era fantastico pensare che il nostro rapporto potesse proseguire. Quando il momento è arrivato e l’ipotesi di vederci si è fatta reale, ho cominciato ad avere però dei dubbi: percepivo strane sensazioni, confuse, e non belle, dentro di me. Come se ci fosse qualcosa che non andava. Ho preso tempo, ma lei ha insistito, aspettato e poi ancora insistito e alla fine mi ha convinto. Ci siamo viste 2 volte, una in pizzeria per una cena, una a casa sua sempre per una cena.
In quelle occasioni ho capito per la prima volta molte cose, e mi sono sentita davvero molto a disagio, quasi “in pericolo” a voler descrivere l’esatta percezione che ho avuto.
Gliene ho parlato, le ho detto che i ruoli erano estremamente impari, e che sentivo di essere nuda di fronte al fatto che lei sa tutto di me mentre io in realtà “non la conosco al di là del ruolo professionale”. Lei ha più volte risposto che per lei uscire dai ruoli è facile, se per me è difficile, è un mio problema.
Ma io non ritengo di avere un problema in questo senso: ritengo invece che, pensione o no, il rapporto paziente /terapeuta si esaurisce perché il terapeuta “conduce” progressivamente il paziente verso l’autonomia, non perché “magicamente” da oggi non siamo più paziente/terapeuta punto e basta.
La dipendenza può avere un senso “durante” ma, poi -così la penso- dovrebbe essere gestita e diluita nel tempo perché il paziente possa divenire autonomo e vivere la propria vita.
Durante il 4° anno le confessai con grande vergogna (perché mi rendevo conto fosse una proiezione) che per me lei era come una madre. Mi rispose allora, e lo ripeté molte altre volte, che lei “Era felice che la considerassi una madre.” Questa risposta mi ha sempre spaventato ma non ho mai ribattuto nulla.
Avrei desiderato che lei, partendo da quella mia affermazione, mi conducesse e mi aiutasse a riannodare i fili della mia relazione con la mia vera madre. Dicendo che “Era felice di questo.” era come se mi lasciasse sempre nello stesso punto in cui mi trovavo, appesa a lei.
Una volta mi disse che aveva discusso con il suo analista riguardo a me. Dicendomelo mi è quasi parso mi chiedesse una legittimazione a proseguire in quel senso. Io mi spaventai, non presi posizione e lasciai che le cose proseguissero. Alla luce di tutto questo, desidererei se possibile avere un parere professionale riguardo il suo operato e miei eventuali errori di condotta, così da avere elementi di riflessione per elaborare meglio l’accaduto. Grazie mille