Demenze e caregiver: il ruolo di chi si prende cura
Chi è il caregiver? Qual è il suo ruolo? Perché è importante che si prenda cura di sé nello svolgere il suo lavoro?

Il termine inglese "Caregiver" significa letteralmente "chi si prende cura". Può riferirsi sia ai familiari - e in questo caso si parla di caregiver naturale - sia ai professionisti (infermieri, badanti, assistenti domiciliari, OSS…), ognuno con le sue specificità. Al di là delle singole competenze, a ciascuno è richiesto, per ruolo, di farsi carico del benessere della persona che necessita di cure "in una condizione di malattia temporanea o permanente".
La cura prende forma in termini materiali: pulizia, igiene, somministrazione farmaci, ma anche psicologici, presenza affettiva, compagnia e sostegno.
Occupandomi da tempo di formazione per "caregiver" professionisti e gruppi di sostegno per familiari di malati con patologie croniche e degenerative, ho modo di condividere oltre il carico e la fatica fisica, anche l'aspetto emotivo e l'estrema importanza di un supporto psicologico, come momento ed opportunità di dare voce alle emozioni, ai rifiuti, alle frustrazioni, e non da ultimo alla perdita. L'esperienza della cronicità e della progressiva involuzione, propria delle demenze, condiziona fortemente la vita del nucleo familiare o di parte di esso richiedendo anche importanti cambiamenti di stili di vita.
Nel caso si tratti di un professionista, oltre a un'adeguata preparazione sanitaria, è opportuna anche una preparazione psicologica, in quanto oltre al paziente, si rende fondamentale il rapporto che viene creato o non creato con la famiglia dell'assistito. Un aspetto, quest'ultimo, delicato e complesso, in quanto date per presenti le competenze tecniche, sono la relazione di fiducia e di collaborazione, la stima, il reciproco rispetto, ognuno per i propri ruoli, a fare la differenza.
Ci sono professionisti che s'integrano nel tessuto familiare permanendovi anche per lungo tempo, altri invece sono soggetti a una rapida e frequente sostituzione. Ci sono nuclei familiari che, anche dopo momenti di grandi difficoltà, riescono ad accettare al proprio interno la presenza di terzi, comunque estranei, e riconoscerne l'impegno e la disponibilità, ed altri invece per i quali "nessuno va mai abbastanza bene".
Il ricorso ad un elemento esterno al proprio sistema - famiglia spesso rimanda a vissuti di inadeguatezza, di impotenza, di colpa, per non potersene occupare in prima persona ed in modo continuativo; inoltre, quando si "paga, e non poco, si ricerca il meglio! Talvolta questo meglio è piuttosto limitato; altre si avvicina alla richiesta, ma si potrebbe avere ancora qualcosa in più!
Una cosa è certa: in questa non facile dialettica, qualunque sia il caregiver, il malessere fisico e o psichico del caregiver ricade sul paziente, che lo percepisce per l'estrema condizione di fragilità in cui si trova.
Il caregiver è esposto, per la natura del proprio servizio, al rischio di alti indici di stress fino al burnout. È fondamentale, pertanto, che si prenda cura di sé per non esaurire le risorse emotive e fisiche nell'interesse del paziente ritagliandosi anche piccoli spazi, alla stregua di una sana boccata di ossigeno.
Concedersi delle brevi soste non è egoismo, ma un'opportunità per alleggerirsi ed essere più disponibili quando ci si trova ad essere operativi. Mediamente tre quarti della giornata del caregiver sono assorbiti dall'assistenza e l'impegno aumenta con l'aggravarsi della malattia. Nelle situazioni in cui il malato è in uno stato avanzato, il tempo libero è ancora più ridotto.
Mi piace ricordarmi e ricordare che per il malato, il caregiver è come la madre per il neonato. Potrebbe il piccolo sopravvivere senza di lei?
Di certo, per la famiglia, trovarsi a fare i conti con un congiunto - marito o genitore- i cui comportamenti risultano non avere nulla a che vedere con il modo di pensare e di porsi che lo hanno contraddistinto i n buona salute, tanto da renderlo irriconoscibile ai loro stessi occhi, è molto angoscioso.
È questo uno dei motivi per cui è opportuno che anche i familiari più prossimi cerchino un aiuto, anche attraverso il confronto con altri che si trovano a vivere esperienze analoghe.
Se manca la consapevolezza del danno indotto dalla malattia, dominano frustrazione, rabbia, risentimento, incredulità, colpa, eccessivo coinvolgimento, depressione, rischio di leggere le reazioni come dispetti e provocazioni, caricando il clima domestico di tensione. In questo caleidoscopio emotivo, si può oscillare tra la negazione ("non può essere!") e l'estrema impotenza e dolore per "un tempo e una persona che sono stati e non torneranno più". Conoscere i segni della malattia risulta fondamentale per comprenderne i comportamenti e dare un senso ad un quadro clinico che non concede appelli.
Quando il tempo volge al termine
La demenza è un processo degenerativo progressivo e ingravescente, che comporta negli anni una debilitazione anche del fisico, fino ad arrivare alla fase terminale, in cui il paziente è totalmente dipendente da terzi per qualsiasi suo bisogno, alla pari di un neonato che non può sopravvivere se manca qualcuno che si occupi di lui.
Davanti a queste condizioni, la perdita e il lutto vengono elaborati molto prima, nel corso della malattia, quando, il confronto tra presente e passato del proprio caro diventano sempre più distanti.
È un dolore sordo, lento che in molti casi vede nella morte l'atto liberatorio, la fine di un calvario che ha accomunato famiglia e malato per molti anni, dove la sofferenza lascia posto ad un ricordo "dolce e tenero" dove ciascuno approda alla pace.
Le informazioni pubblicate da GuidaPsicologi.it non sostituiscono in nessun caso la relazione tra paziente e professionista. GuidaPsicologi.it non fa apologia di nessun trattamento specifico, prodotto commerciale o servizio.
PUBBLICITÀ
PUBBLICITÀ