Ansia, ossessione, crisi isteriche: cosa sono diventata?
Gentili dottori,
sono una ragazza di 26 anni e, per la prima volta, mi ritrovo a fare veramente i conti con demoni e lati oscuri della mia personalità che non conoscevo o di cui non ero completamente cosciente. La mia storia è molto lunga e non so quanti di voi avranno la pazienza di leggere.
Facciamo un passo indietro a un anno fa, quando, finalmente, dopo un periodo piuttosto buio, sentii di aver raggiunto un equilibrio perfetto: una famiglia che amavo, tanti amici, un hobby che mi gratificava, una laurea specialistica con il massimo dei voti e un lavoro che adoravo. Fu in questa cornice così idilliaca che arrivò, come un uragano, D., mio collega di lavoro. Non fu esattamente un colpo di fulmine. Oltre a qualche battuta per stuzzicarsi e chiacchiere frivole, non si andava. Tutto nacque in modo piuttosto improvviso, dopo una festa di lavoro, in cui sembrò crearsi un'intesa speciale tra noi. Da quel momento, io che son sempre stata per la politica dei piccoli passi, mi ritrovai a correre alla velocità di D., che invece era un "maratoneta". Se io facevo un passo indietro, lui mi prendeva la mano e me ne faceva fare due avanti. In D. vedevo tutto ciò che non c'era nel mio ex: passione, galanteria, intraprendenza, sicurezza di sé, ambizione, estroversione. Eppure, al contempo, qualcosa in lui mi disturbava: forse questo voler tenere totalmente le redini, forse l'atteggiamento talvolta da maschio-alfa, forse il modo degradante e semplicistico in cui spesso parlava delle donne o probabilmente tutte queste cose insieme. Cercai di accantonare queste sensazioni, attribuendo a quanto detto sopra sfumature scherzose. In fin dei conti, mi dava tutto quello che una donna potesse desiderare. Era anche geloso! La cosa mi lusingava, perché nella mia storia precedente io, molto gelosa, stavo con un uomo che non lo era per niente. D., tuttavia, si dimostrò presto geloso a livelli patologici, soprattutto per una storia cominciata da così poco tempo (in me, ad esempio, la gelosia subentra quando sento che la relazione è stabile). Per D. ero decisamente troppo esuberante ed espansiva con tutti, specialmente con gli uomini. Il suo pensiero, scoprii successivamente, venne alimentato probabilmente da alcuni colleghi, che mi definivano un' "ochetta". Mi venne attribuito anche un flirt totalmente inventato con un collega, mio buon amico, il quale non era in buoni rapporti con D. Il sospetto di D. e la mia impulsività portarono a una situazione molto spiacevole, che non racconterò in questa sede, ma che diede la svolta in negativo alla nostra storia, dopo nemmeno un mese. Decisi che era meglio chiuderla, prima che fosse troppo tardi. Da quel momento, cominciò da parte di D. una folle impresa per la riconquista. Mi ci volle poco per ricascarci. Dentro di me, tuttavia, continuavo a sentire un senso di inquietudine: non riuscii più a tornare la stessa e cominciai a fare di tutto per allontanarlo. Ma lui non demordeva e quando provavo a lasciarlo, mi recuperava, provando dapprima con le "buone" (parole dolci, regali, sorprese) e se le buone non funzionavano, passava alle "cattive". Andava dal senso di colpa. ("per colpa tua sono dimagrito di 10 kg"), fino alle offese ("non sai stare senza qualcuno che abbia un pene", "mi fai ribrezzo") o alle minacce, nel peggiore dei casi ("ti s******o con tutti pubblicamente. Tutti sapranno che persona sei"). Mi teneva sotto controllo in ogni maniera possibile, con l'utilizzo di profili finti, arrivando a leggere più volte i miei messaggi (ma negandolo sempre con tutto se stesso, anche davanti all'evidenza dei fatti). Tutto questo, anziché allontanarmi, mi avvicinava sempre di più a lui: D. aveva il potere di tirare fuori tutte le mie insicurezze e farmi sentire una brutta persona, dandomi però poi l'opportunità di redimere le mie "colpe". Colpe di cui spesso non ero cosciente, finché lui non le faceva emergere. D. era in grado di scoprire ogni mio scheletro nell'armadio, ogni piccola bugia, mi estorceva confessioni anche con l'inganno, per poi puntualmente perdonarmi qualsiasi cosa, come un samaritano misericordioso. Ogni sua colpa cadeva invece, magicamente, nel dimenticatoio. Ad oggi,ancora, non comprendo come, nonostante tutte le prove che trovavo delle sue bugie, se lui negava, io finivo per crederci o passare oltre. Risultato? Dopo qualche mese passato a tentare di allontanarlo, cominciai a sentirmi sempre più attratta da lui e la mia nuova missione, senza che me ne accorgessi, diventò compiacerlo.
Arrivò la fine del contratto ed essendo coinvolti in un'esperienza internazionale, ne sarebbe derivata una "diaspora". Lui avrebbe infatti fatto ritorno in Germania dalla sua famiglia e io sarei rimasta in Italia. Lui sapeva che nei miei piani c'era da tempo l'idea di fare un'esperienza in Germania, per imparare bene il tedesco e non esitò a fare leva su questo: mi disse che finalmente sarebbe stata la nostra occasione per stare insieme davvero, lontani dai colleghi che, a detta sua, avevano influenzato negativamente la nostra relazione, con una vita tutta nuova in un ambiente tutto nuovo. Mi si propose come "guida": perché lui sapeva cosa significava trasferirsi in un paese straniero, in cui non si conosce nessuno e io avrei invece avuto la fortuna di avere un appoggio. Ci divertivamo a scegliere le città in cui ci sarebbe piaciuto vivere. Prima di cominciare la nostra ricerca, sapevo, però, che c'era ancora una cosa da fare: andare a conoscere la sua famiglia. Con mia sorpresa, tutto andò alla perfezione: piacqui a tutti, compresa sua sorella, quella che, a detta di D., aveva il carattere più difficile. Avevamo anche smesso di litigare così di frequente. Iniziai, dunque, a trascorrere sempre più tempo lì. La situazione non era delle più comode: la casa in cui lui mi aveva detto di abitare da solo constava sostanzialmente in una camera e un bagno, in cui in due si sta troppo stretti. Per la cucina, eravamo costretti ad andare dai suoi, che abitano nella casa di fronte, cosa che mi faceva sentire non poco a disagio. Pensai tuttavia che, in fin dei conti, era solo una condizione passeggera e avremmo avuto presto la nostra indipendenza. Come un puzzle in cui tutti i tasselli si incastrano, D. trovò un offerta di lavoro per me nella sua città. Ero, finalmente, ottimista: forse davvero poteva funzionare tutto. All'ultimo step di selezione, tuttavia, venni scartata. L'alternativa non tardò ad arrivare: tramite alcune ex colleghe, cominciai a lavorare nelle fiere in Germania come interprete. Era il mio lavoro, era gratificante e mi permetteva al contempo di viaggiare, guadagnare bene e avere tanto tempo libero, da trascorrere con lui, tornando occasionalmente anche in Italia. Lui, tuttavia, non sembrava vedere la cosa di buon occhio: cominciò a dirmi che ero egoista, che non sapevo cosa stesse passando, che lo abbandonavo sempre, che lui era pieno di problemi e aveva bisogno di me, che era solo, che non aveva amici, che i suoi litigavano sempre e non sapeva cosa fare della propria vita, se riprendere a studiare o mettersi a lavorare. E, in tutto questo, io non lo aiutavo e pensavo solo alle mie stupide fiere. Gli feci notare che l'offerta di lavoro nella sua città era scarsa e che comunque, sinceramente, prima di prendere l'impegno di un contratto di lavoro o di affitto, preferivo che lui decidesse cosa fare e dove.
Stavo via mediamente una decina di giorni al mese o poco più, tra fiere e pit stop a casa in Italia. In questi momenti di lontananza, lui diventava sempre più freddo, sempre più scostante e sempre più scontroso nei miei confronti. Ogni mia assenza si traduceva in liti furibonde. Anziché andare verso di lui, però, questa volta pensai per me: smisi di cercare altri lavori e continuai a viaggiare per le mie fiere. In fiera mi sentivo viva: tornavo da lui felice, rigenerata, piena di cose da raccontare. Cose che lui, visibilmente infastidito, non voleva sentire. Smisi dunque di esternare il mio entusiasmo, per non ferirlo o non farlo sentire inadeguato, e mi allenai a tenere tutte quelle esperienze per me. Tentai di coinvolgere anche lui, ma non vedendolo mai realmente interessato e collaborativo, non insistetti mai troppo, cosa che lui interpretò sempre come un non reale sforzo o interesse da parte mia. Tutto questo, unito dall'essere rifiutato a diversi colloqui e università, cambiò totalmente la persona che avevo conosciuto. Mi ritrovai di fronte un individuo sempre arrabbiato, apatico e senza più spirito di iniziativa. Vi era poca traccia non solo della gelosia, bensì dell'interesse nei miei confronti. Questo rese anche me, di riflesso, depressa e insofferente. Ero abituata alla mia città, ricca, piena di opportunità, di cui conoscevo tutto, in cui potevo muovermi agevolmente, in cui ero indipendente e in cui avevo sempre qualcosa da fare. Ero abituata ad avere tanti amici e una famiglia che mi viziava. Avevo lasciato tutto questo, andando a finire in un paese di 300 anime, con poche possibilità di movimento, in cui dipendevo da D. più di quanto non riuscissi a sopportare, senza amici e senza la mia famiglia, intrappolata in una realtà che non era la mia e in cui non riuscivo veramente a inserirmi, con persone che non vedevo affini a me e con cui ero costretta a trascorrere tutto il mio tempo. Si innescò un meccanismo subdolo per cui, non accettando loro un "ringraziamento" di tipo economico da parte mia, fui costretta ad adeguarmi a una serie di regole di etichetta, come ad esempio mangiare sempre con loro la sera o lavorare il sabato pomeriggio nella loro gelateria. Sentivo di essere stata data in affido senza aver perso i miei genitori, senza autonomia, in una casa di cui non avevo nemmeno le chiavi. Avevo la sensazione che dovessi sopportare troppo per una persona che, fondamentalmente, non esisteva più. Una persona che, quei pochi momenti di gioia che avevo, non sapeva accettarli, né gioirne con me e, avevo l'impressione, volesse privarmene, per trascinarmi nel baratro con sé. Cominciò a farmi notare la mia inadeguatezza come "convivente", a causa del mio essere poco collaborativa nelle faccende di casa e mi accusò di non prendermi mai cura di lui, di non fare mai nulla per renderlo felice. Mi diceva che io mi comportavo come fossi in un albergo, andando lì due settimane al mese e pretendendo che lui modellasse la sua vita sulle mie esigenze e che, anche e soprattutto per colpa mia, stava diventando un vegetale. Le sue parole fecero nascere in me un forte astio nei suoi confronti, unito al senso di frustrazione per non essere la donna che lui desiderava.
Presto, iniziai a tirare fuori il peggio di me. Mi rifugiai nel mondo virtuale, passando le mie giornate attaccata al telefono a sentire i miei amici in Italia, per sentirmi meno sola. La gelosia che avevo mostrato inizialmente in modo moderato, divenne patologica. Subentrò un aspetto di me che conoscevo solo in parte: la mania del controllo. Iniziai a cercare costantemente prove del cattivo comportamento di D. , di cui ero sicura. Le prove non tardarono ad arrivare: scoprii che D. chattava su un noto sito di incontri con ragazze dell'Est-Europa (di cui, sapevo, lui aveva sempre avuto un debole). Quando lo sbugiardai, mi disse di averlo fatto solo una volta per chiacchierare, perché io ero spesso via e lui non aveva amici e che comunque lo faceva con persone a migliaia di km di distanza e in fondo non aveva fatto nulla di male. Mi promise di disattivare quei profili, ma mi disse che io dovevo essere meno gelosa e dovevo lasciargli fare di più la sua vita. Eppure qualcosa in me ormai mi aveva messa in allerta. Anziché smettere di controllarlo, aumentai la dose. Dopo tanto tempo, aveva ricominciato ad andare ai party studenteschi e a iscriversi ai siti per "praticare le lingue". Notai con fastidio che le sue nuove conoscenze, in entrambi i casi, erano composte per il 95% da ragazze. La cosa mi mise in allarme e pensai che il momento era arrivato: si era stancato di me e voleva sostituirmi. Fu a questo punto che cominciarono le mie crisi isteriche. Lo chiamavo febbrilmente, più volte al giorno, per chiedergli se si era stancato di me, che mi mancava la persona che mi aveva fatta innamorare. Non avendo mai un suo riscontro e sentendomi rispondere di non aver tempo per le mie paranoie e le mie stupidate, a quel punto, seguiva la fase di rabbia, in cui lo riempivo di parolacce e insulti, con tutta la cattiveria che avevo in corpo (e giuro, non credevo di averne così tanta). Cominciò a chiamarmi malata di mente, a dirmi che io non dovevo permettermi di controllarlo e che dovevo cominciare a vivere nel mondo reale. Mi disse che gli avevo rovinato la vita, che io volevo metterlo in una gabbia, che lui aveva sempre fatto questa vita internazionale e non l'avrebbe cambiata per me, perché era l'unica cosa che lo facesse sentire ancora vivo, che lui si trovava meglio con le donne e non c'era nulla di male. Cercai di capire il suo punto di vista e di sistemare le cose tra noi: gli proposi di passare un periodo a casa mia in Italia (offerta che rifiutò). Gli dissi che per esempio saremmo potuti andare insieme a queste feste. Lui mi disse però che, vedendomi già tutto il giorno, aveva bisogno dei propri spazi e io dovevo trovarmi degli amici e non stare sempre appiccicata a lui. Mi sentii abbandonata e sola, lui non voleva portarmi con sé, perché diceva di non sentirsi libero di parlare con qualche ragazza per paura della mia gelosia. Da soli non uscivamo mai, perché non aveva mai voglia. Un giorno, presa dalla rabbia, appena presentatasi l'occasione, feci qualcosa che in passato mai avrei fatto: in sua assenza, gli lessi tutti i messaggi. E quello che scoprii, mi diede il colpo di grazia: erano circa due mesi che, oltre a continuare a chattare su siti di incontri, scriveva a tutte le presunte "nuove amicizie che io gli vietavo", con fare piacione, invitandole a uscire, chiedendo foto, autoinvitandosi a casa loro o proponendo ipotetici viaggi insieme. Si parla di circa 30 ragazze diverse. Con il mondo crollatomi addosso, decido di lasciarlo e lui, senza il minimo pentimento e dispiacere mi dice che, se io non avessi rotto per così tanto tempo, lui non avrebbe sentito il bisogno di evadere, puntualizzando che comunque, se avesse voluto, avrebbe potuto tradirmi o uscire con una di loro, mentre invece dovevo essere contenta che si fosse limitato al virtuale. Mi disse anche che lui avrebbe voluto ancora stare con me, a patto che io lo lasciassi in pace e gli permettessi di fare la propria vita. Ancora una volta, mi feci abbindolare. Cominciai a rimuginare, a pensare che era vero che ero stata rompiscatole, che io avrei fatto la stessa cosa al suo posto, che ero stata egoista a non comprendere i suoi bisogni, che lui in fin dei conti aveva perdonato tutti gli sgarbi che gli avevo fatto per allontanarlo un anno prima e che avremmo potuto salvare la nostra storia, che avremmo trovato presto la nostra dimensione e lui sarebbe tornato quello di prima. Non è stato così. Un modesto cambiamento da parte sua c'è stato, ma nulla in me è tornato come prima. La mia ossessione nel controllarlo spasmodicamente è,se possibile, aumentata, i messaggi che ho letto mi tornano costantemente alla mente e l'angoscia quando esce raggiunge ormai livelli esponenziali. Inoltre, anche se a lui non l'ho mai confessato, mi porto dentro il dubbio per una serie di indizi che ho trovato e che mi fanno pensare a un tradimento carnale. Ciò che sono diventata oggi, a distanza di un anno, è qualcosa che non riconosco: ho incubi a occhi aperti, sono spesso soggetta a terribili crisi isteriche, in cui urlo, mi picchio, lo accuso di volermi morta, lo insulto e sbatto i piedi per terra e pugni contro oggetti. E' anche capitato che tirassi uno schiaffo a lui. La cosa peggiore è che ormai non mi trattengo neppure di fronte ai suoi genitori e ho rovinato il rapporto con tutti. Sono arrivata a leggere i suoi messaggi davanti a loro, senza considerare minimamente le possibili conseguenze. Ho perso tutta la luce che avevo dentro e con essa anche ogni brandello di dignità. Sono arrabbiata, mortificata, disgustata dalla mia persona, intollerante verso tutto e tutti. Ho perso l'ambizione e la voglia di fare. Ma soprattutto, sento sempre di più il peso di essere ospite qui da lui che, anziché farmi venire voglia di sdebitarmi, mi paralizza ancora di più. Tutti mi dicono che dovrei farmi curare, lui compreso e la verità è che lo so anch'io, ma purtroppo al momento ho una serie di impedimenti. La domanda è: cosa m’impedisce di lasciarlo? Perché la mia mente si ostina ad attaccarsi ai pochi ricordi e sensazioni di sporadici momenti felici? Perché non riesco a lasciare andare, pur sapendo che niente si sistemerà più? Ma soprattutto, perché lui non riesce a capire il mio disagio? Non ricorda cosa mi ha fatto passare lui? E perché se sta così male con me, nemmeno lui riesce a lasciarmi? Da quando sto con D., mi sento una persona peggiore, eppure sono costantemente in bilico tra il disperato bisogno che lui mi ami e mi apprezzi e il senso di ribellione nei confronti di ciò che lui si aspetta da me e io non voglio dargli.
Vi prego, ditemi cosa mi sta succedendo, perché la persona che vedo oggi nello specchio è un'estranea. E ogni tanto temo che sia la vera me.