Narrazione e Resilienza. Coltivare la fiducia

E' importante essere capaci di raccontare per che diano senso a quello che ci accade. Tutto ciò è proprio della persona resiliente, cioè chi nonostante le avversità non si spezza.

17 DIC 2013 · Tempo di lettura: min.
Narrazione e Resilienza. Coltivare la fiducia

RESILIENZA E NARRAZIONE: UNIRE I PUNTINI

…“Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti; potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete … questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.”

(dal discorso di Steve Jobs ai neolaureati della Stanford University, 12 giugno 2005)

Ciò che disse Steve Jobs (Eliot, 2011, 2012) ai neolaureati della Stanford University nel 2005 offre lo spunto per far incontrare e promuovere una breve riflessione su due concetti che hanno acquistato grande rilievo in vari campi del sapere come la sociologia e la psicologia: la narrazione e la resilienza.

Non è possibile qui riassumere la vastissima letteratura in merito, sempre più fiorente; inserendo nella banca dati per fare una ricerca bibliografica come EBSCO (una tra le tante) per trovare nel titolo le parole “resilience” e “resiliency” avremo nel primo caso 623 risultati (578 pubblicazioni accademiche, 40 recensioni di libri e 5 riviste) e nel secondo 120 risultati (112 pubblicazioni accademiche, 5 recensioni di libri e 3 riviste); dalla ricerca sono escluse le possibilità di trovare tali concetti tra gli argomenti (subject term) o nel testo (all text); lo stesso discorso vale per “narrative” per cui i risultati sono 1393 (1209 pubblicazioni accademiche, 176recensioni di libri e 8 riviste) dal 1973 ad oggi.

Qui basti dire che questi due approcci segnano, per così dire, un passaggio da un pensare lineare, a un paradigma orientato alla complessità (Bocchi & Ceruti, 1985) sia della persona, delle relazioni e dei contesti. Volendo restare nell’immagine di Steve Jobs cui ci ispiriamo, “l’unione dei puntini” è il narrare, il rivedere (vedere con occhi nuovi), costruire o ricostruire attraverso storie ciò che noi siamo; si ricordi che tutto il discorso di Jobs si fonda su tre storie: la prima parla di “unire i puntini”, la seconda storia parla di “amore e di perdita”, la terza “parla della morte”.

Volendo essere ancora più espliciti diremmo che un approccio resiliente e narrativo apre alla/e possibilità, alle risorse, vede il soggetto che costruisce attivamente che entra in contatto con le proprie risorse e non (solo) con i propri limiti; l’approccio non è patogenico ma salutogenico; il modello centrato sulla resilienza modifica la prospettiva culturale e le logiche sottese alla cura anche attraverso la valorizzazione delle risorse, delle competenze e dei fattori di protezione (protective factors). Allarga lo sguardo e induce a trovare modalità complementari, più ampie rispetto al semplice uso delle classificazioni diagnostiche, che rischiano di essere rigide e non esaustive per descrivere la complessità di chi si trova ad aver vissuto eventi molto dolorosi.

Mario Bertini in una sua recente pubblicazione (“La psicologia della salute”, 2012) riassume bene questo “punto di vista” quando inserisce come sottotitolo al suo lavoro “dal deviante al viandante”, passando dal “modello malattia” al “modello salute”, dalla persona che esce fuori da una strada prescritta e devia, a chi sceglie la propria strada entrando in contatto con le proprie risorse e possibilità. La metafora del viaggio (“il viandante”), unisce sia la narrazione con la resilienza. Lo studioso italiano Angelo Marchese (1989) associa alla narrazione il concetto di trasformazione; l’evento narrativo deve avere in sé una trasformazione sia dei personaggi, che dei luoghi e dei contesti, poiché la narrazione risolve, decide, stabilisce e compone una dimensione temporale con una spaziale cioè un prima e un dopo, e deitticamente un lì e allora e un qui ed ora.

Cos’è la resilienza?

In fisica, la resilienza è la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi, è la resistenza che un materiale offre alle azioni dinamiche e misura l’elasticità. Dal latino resiliens, resilire, rimbalzare, re-salire, saltare indietro” (Short & Casula, 2004).

Fino a poco tempo fa la resilienza era considerata solo come una proprietà fisica di un materiale, come indicatore della sua capacità di assorbire energia in caso di urto, ovvero di sopportare gli urti a cui viene sottoposto. Il valore della resilienza consente di distinguere tra materiali fragili e materiali duttili; i primi assorbono poca energia i secondo sono in grado di assorbire molta energia (Loriedo, 2004). L’interesse del concetto di resilienza per le discipline della salute sembra evidente.

In sociologia e in psicologia, resilienza indica la forza umana, anzi la fortezza, di reagire ad eventi traumatici. […] Resiliente è chi sa sopportare i dolori senza lamentarsi, chi sa reggere le difficoltà senza disperarsi, chi ha il coraggio di intraprendere una viache sa essere tortuosa” (ibidem). La persona (o anche le famiglie, i gruppi, le istituzioni etc.) resiliente esce potenziata, rinforzata dall’esperienza vissuta, non segnata a vita, non ferita ma piuttosto con cicatrici che diventano risorse e strumento per continuare il viaggio della vita. Il poeta Guillame Apollinaire (1880-1918) immagina così chi passa dalla paura al volo: “Avvicinatevi all’orlo” disse. “Abbiamo paura” risposero. “Avvicinatevi” disse. Si avvicinarono. Lui li spinse…ed essi volarono”.

Secondo Grotberg (2001) “la resilienza corrisponde alla capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato”.

Il passaggio dalla fisica allo studio scientifico della resilienza in ambito psicosociale c’è stato con alcune ricerche sempre citate quali quelle di Werner (1993) e Werner & Smith (1992). Lo studio riguardò circa 700 bambini dell’isola hawaiana Kauai cresciuti in povertà e grande deprivazione (conflitti, divorzi, alcolismo, malattie mentali…). Nonostante tale contesto, dai risultati della ricerca emerse che non pochi dei soggetti seguiti erano divenuti, “fine humann beings”, cioè eccellenti esseri umani capaci di giocare, lavorare e amare in maniera ottimale. Tale risultato fu spiegato come una combinazione tra tratti di personalità e fattori protettivi appartenenti alla famiglia e al contesto sociale.

Sui tratti di personalità si focalizzò una ricerca del National Institute of Mental Health (NIMH, 1999) per cui il soggetto resiliente avrebbe punteggi elevati ai BIG FIVE (si veda tabella 1).

BIG FIVE

CARATTERISTICHE

Estroversione

Socievole, coraggioso ed entusiasta

Disponibilità

Amichevole, empatico e collaborativo

Coscienziosità

Organizzato, affidabile e puntuale

Stabilità Emozionale

Calmo, imperturbabile e privo di invidia o di “nervosismo”

Intelletto

Intelligente, dotato di ottima capacità immaginativamaturo

Tabella 1 I BIG FIVE

Altri studi hanno sostenuto decisamente l’importanza della famiglia e del supporto sociale per lo sviluppo della resilienza. In particolare per la famiglia sembra che calore, affettività, supporto emotivo, struttura ben funzionante e la presenza di confini ragionevoli e ben definiti siano fattori protettivi. In particolare Froma Walsh (2008) ha stabilito degli assunti di base della resilienza familiare; in particolare i sistemi di credenza, le strutture organizzative e i processi comunicativi (si veda tabella 2).

ASSUNTI DI BASE

SPECIFICHE

Sistemi di credenze familiari

-Significazione delle situazioni avverse

-Atteggiamento positivo

-Trascendenza e spiritualità

Strutture organizzative

-Flessibilità

-Coesione

-Presenza di risorse sociali ed economiche

Processi comunicativi

-Chiarezza

-Espressione libera delle emozioni

-Strategie collaborative di risoluzione di problemi.

Tabella 2 Gli assunti di base della resilienza famigliare (Walsh, 2008)

Non sembra inutile dire che gli assunti di base e le relative declinazioni sono tra loro intrecciati e interrelati; per esempio possiamo immaginare che in una famiglia in un cui ci sia un sistema di credenze positivo, sia possibile flessibilità ed espressione libera delle emozioni.

Quindi la resilienza, come concetto utilizzato dalle scienze sociali, ci rappresenta un’idea di persona con risorse, e in un contesto in cui ci sono risorse (fattori protettivi) e non fattori di rischio, si colloca in una cornice salutogenica (Bertini, 2012 invita a parlare di salutìe e non di malattìe) e in un modello sistemico bio-psico-sociale, che tiene conto della complessità della persona che va collocata e vista in un dimensione biologica, psicologica e di contesti tra loro collegati e interrelati, di sistemi con strutture complesse tra loro comunicanti.

Cos’è la narrazione?

 

L’approccio narrativo ha toccato vari campi del sapere. Qui forniamo solo alcune indicazioni bibliografiche dei numerosi contributi presenti in letteratura: da quello psicologico (es. Bruner, 1992; 1993; 2001;) a quello dell’educazione (es. Demetrio, 1996; 2003a; 2003b; 2005; 2008; Cambi, 2003; 2005), a quello sociologico (Atkinson, 1998; Bichi, 2000; Bichi e Maestripieri, 2012; Czarniawska, 1997; Poggio, 2004) alla riflessione sulle malattie e le diagnosi in medicina (Cagli, 2005; 2007), alla psicoterapia (es. Manfrida, 2006; McNamee, S., & Gergen, K., 1998).

Jerome Bruner (1993, pag. 15 e 17) scrive: “la mia tesi è questa: ci sono due tipi di funzionamento cognitivo, due modi di pensare, ognuno dei quali fornisce un proprio metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e di costruzione della realtà […]. Il primo è quello paradigmatico o logico-scientifico, persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. […]. Il suo linguaggio è regolato dai requisiti della coerenza e della non contraddizione […]”. Il modo di pensare narrativoproduce invece buoni racconti, drammi avvincenti e quadri storici credibili, seppure non necessariamente “veri”. Si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo”. L’intento del pensiero narrativo è di calare i propri prodigi atemporali “entro le particolarità dell’esperienza e di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio. Il pensiero paradigmatico è teso a trascendere il particolare e a conseguire un grado di astrazione sempre più elevato.” (ibidem).

Paul Ricoeur (1986) sostiene che il pensiero narrativo scaturisce dall’interesse per la condizione umana, mentre l’argomentazione teorica semplicemente o è conclusiva o non lo è.

In Italia Duccio Demetrio si è occupato diffusamente di narrazione (1996, 2003a; 2003b; 2005) come anche Franco Cambi (2003) e Cambi e Piscitelli (2005), la narrazione però come elemento di riflessione nell’ambito delle scienze dell’educazione.

In un recente lavoro, Demetrio (2008) scrive: “Il concetto di narrazione, di recente, sembra quasi essersi sostituito a quello di educazione. Una fortuna che pare abbia contagiato però un po’ tutte le scienze umane, stando a quanto è dato osservare in altri ambiti di ricerca: in antropologia, in psicoanalisi, in sociologia, nelle discipline dell’organizzazione, ecc. I cui paradigmi epistemologici non hanno mancato di riaggiornarsi in rapporto alle suggestioni delle teorie sistemiche e della complessità, dell’ecologia della mente, oltre che della psicologia culturale. Quanto evoca tale idea (un racconto si fonda su legami, relazioni, nessi, sviluppi e significati di una storia, ecc.), è insomma divenuta una metafora esemplare in grado di spiegare, o per lo meno di rappresentarsi ogni realtà vivente; il che permetterebbe di illustrare ogni universo fisico, mentale, culturale nelle forme del racconto”. Sottolinea anche che bisogna evitare la trappola di “trame narrative” che non liberano la persona ma la intrappolano in un esercizio di ripetitività e ritualità soprattutto in ambito educativo.

Lo psicologo Andrea Smorti, in un suo lavoro (1994) da titolo “Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale” sottolinea come solo attraverso il pensiero narrativo si riesce a fare ordine in quella in quella complicata ragnatela di relazioni sociali, dove le persone si muovono spesso in modo singolare e imprevedibile.

Bichi e Maestripieri (2012) provano a rispondere alla domanda su cosa sia la narrazione citando Atkinson (1998): ”Ma che cos’è una narrazione? Una narrazione in sociologia è definita come tale nel momento in cui un narratore connette eventi in una sequenza (cronologica, logica, argomentativa) che sia consequenziale per le argomentazioni successive e per il significato che il parlante vuole comunicare a chi ascolterà la sua storia (Atkinson, 1998).

I punti in comune tra questi vari contributi sono: l’uomo significa e rappresenta (costruisce, co-costruisce) la propria realtà attraverso narrazioni, racconti, storie che potrebbero essere pensati come un pattern che connette; Bateson scrive (1984): “la storia è un piccolo nodo o complesso di quella specie di connessione che chiamiamo pertinenza”. Le storie riescono a tenere insieme la complessità, la non linearità dei vari contesti di vita, esperienze, sentimenti, vissuti e dei saperi; le storie costruite e raccontate danno vita a processi etero e auto-riflessivi che rispettivamente promuovono la comunicazione-condivisione e la riflessione su di Sé, sul Sè e la costruzione e de-costruzione del Sé (dei Sé).

 

Narrazione e resilienza

Come collegare la resilienza con la narrazione? Si può partire da suggestioni emergenti da alcune citazioni. Short & Casula (2004) scrivono: “La resilienza mette in ordine le perle delle esperienze di gioia e di dolore con un filo di correlazioni di significati che rende plausibili le interpretazioni positive e ristruttura le negative”.

La professoressa Werner della Università of California: ”For many years menthal health professionals tended to focus almost exclusively on the negative effects of biological and psychosocial risk factors by reconstructing the life histories of individuals with persistent behavior disorder or serious emotional problems” (Werner, 2005).

Kagan (1984): “gli effetti di un’esperienza emotivamente significativa, come la prolungata assenza del padre, o un divorzio difficile, dipendono largamente dalle spiegazioni che ne sono state date al figlio e dalla interpretazione che questi riesce a dare a tali avvenimenti

Alcuni concetti chiave che ritornano sono: mettere in ordine, spiegazioni, significato, plausibilità, interpretazione, ricostruzione di storie. Tali concetti connettono la resilienza con la narrazione.

L’immagine di “mettere in ordine le perle” restituisce bene il fulcro del processo o dinamica narrativa, cioè il mettere un ordine, mettere insieme (connettere) e con significato la/le esperienza/e di vita. Mettere in ordine (un ordine soggettivo o condiviso), significa anche spiegare e spiegarsi i “fatti”, rendendoli plausibili, accettabili insomma raccontarli. A nostro parere la persona e anche i gruppi e le istituzioni resilienti sono coloro che sanno raccontare “buone storie”, quelle che riescono a restituire un senso, un significato agli avvenimenti della vita e individuano una direzione di sviluppo. Le storie, le narrazioni sono aperture, possibilità che se non “incistate” o cristallizzate nella mente di chi racconta si trasformano in nuove storie, avventure nel senso etimologico del termine di ‘le cose che accadranno’ (Devoto-Oli, 2012), di possibilità.

È la capacità di raccontare che può accrescere la speranza, la fede e la resilienza.

Steve Jobs inizia il suo discorso alla Stanford così: “Sono onorato di essere qui con voi oggi alle vostre lauree in una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. Anzi, per dire la verità, questa è la cosa più vicina a una laurea che mi sia mai capitata. Oggi voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. Le storie avevano titoli suggestivi “unire i puntini”, di “amore e di perdita”, di “parla della morte”,

Conclude così: “Nella quarta di copertina del numero finale (di The whole Earth catalog) c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.

Siate affamati. Siate folli.

A proposito di storie e connessioni questo lavoro che prende spunto, anche da discorso di Jobs fatto il giorno 12 giugno 2005, è stato scritto inconsapevolmente lo stesso giorno 12 giugno 2013.

BIBLIOGRAFIA

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Bateson, G. (1984). Mente e natura. Milano: Adelphi.

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Scritto da

Dott. Giuseppe Esposito Psicologo e Psicoterapeuta

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