Joker, il senso della risata

Un piccolo articolo di condivisione, sull'importanza dell'ascolto delle storie dei pazienti nella pratica clinica. Fra arte cinematografica e psicoterapia. Fra fantasia e realtà.

21 OTT 2019 · Tempo di lettura: min.
Joker, il senso della risata

Giovedì 3 ottobre 2019 è uscito nelle sale italiane Joker, il film di Todd Philips, col sublime Jaoquin Phoenix nella parte di Arthur Fleck, un ultimo fra gli ultimi che lotta disperatamente per sopravvivere in un contesto socio-politico tristemente realistico, nei bassifondi della ormai iconica Gotham City. Un film dalle mille tematiche, che ha diviso pubblico e critica, e che farà parlare di sé ancora per molto. Tantissimi i post a lui dedicati, tantissimi i temi affrontati.

Personalmente, uscito dalla sala, ho provato un misto di sensazioni. L'angoscia, che il film ispira naturalmente, si mescolava, in modo tutto sommato armonioso, con un senso di euforia legato a doppio filo all'ammirazione totale per l'interpretazione di Phoenix e per il personale coinvolgimento nella storia, tanto che, per diversi giorni a seguire, mi sarei ritrovato a ballare la stessa danza, a imitare le stesse movenze che caratterizzano il personaggio nei suoi momenti di maggiore libertà.

Non mi propongo qui di stilare una serie di critiche al film, né tanto meno di analizzarlo tecnicamente. Ne è piena la rete di articoli simili, scritti da esperti del settore tra i quali non mi annovero.

Voglio piuttosto condividere e mettere in ordine idee, pensieri, intuizioni, suscitate dalla sua visione, dal punto di vista psicoterapeutico. Nello specifico, mi sono sorpreso a ritrovarmi, spontaneamente e senza troppo a fatica, a fare i conti con una personale lettura sistemico-relazionale della storia e del contesto di Arthur Fleck, a cercare di dar risposta a domande per me fondamentali.

"Quali sono i limiti dei servizi pubblici, coi quali Arthur ha a che fare per buona parte del film, e come possiamo superarli, in che direzione dovremmo andare? Può un terapeuta riuscire ad aiutare un paziente come Arthur?".

Farò dei netti riferimenti alla trama del film, perciò spoiler alert ("rivelazioni", in italiano, per chi ancora non sa bene cosa sia lo spoiler)! Se non avete visto ancora il film, e avete intenzione di farlo, vi suggerisco di rimandare la lettura di questo articolo a un secondo momento.

Detto questo… cominciamo.

Voglio subito chiarire una cosa: non condivido l'idea che il film possa istigare alla violenza. Il film, a mio avviso, mette in guardia sulle conseguenze derivanti dall'ignorare quelle persone che soffrono, e continuano a soffrire sempre di più, sia da un punto di vista economico che clinico. Creare una distanza netta, fra chi sta meglio e chi sta peggio, impedisce ai primi di capire fino in fondo le motivazioni della rabbia dei secondi, e di condannarli ferocemente piuttosto che cercare di comprenderli.

Nello specifico, cito una frase del bellissimo fumetto "The Killing Joke" di Alan Moore:

"Basta una giornata storta a trasformare il più sano e virtuoso degli uomini in un pazzo farneticante."

Riadattando questa frase alla realtà ben più cruda e spietata nel quale il film ci proietta, il concetto diventa questo:

"Chiunque di noi, in un contesto deprivato di affetti stabili e risorse, può trasformarsi in un mostro."

Alla luce di quelle che sono le sue risorse personali, la sua storia (rivelata verso la fine del film) e il contesto depresso e decadente in cui è immerso, due sono le possibilità d'azione rimaste ad Arthur Fleck.

  1. annullarsi, attraverso il suicidio (reazione violenta verso di sé);
  2. annullarsi, attraverso l'eliminazione di chi continua a vessarlo e successiva incarcerazione (reazione violenta verso l'Altro).

Nell'impossibilità di costruire qualcosa, tanto vale distruggere ciò che è rimasto.

Le due opzioni, nel film, si mescolano, in un escalation che sembra portare verso l'opzione numero 1. L'atteggiamento di scherno rifiutante e giudicante del presentatore Murray Franklin (Robert De Niro), che lo invita al suo Show per schernirlo e aumentare gli ascolti, e dei suoi ospiti, porta infine Arthur a scegliere la seconda opzione, finendo così di dare gli ultimi colpi di pennello alla sua nuova, libera e finalmente potente identità: Joker.

Alla luce di quanto detto e visto, siamo davvero sicuri che le azioni di Arthur siano una forma di devianza? Un'inspiegabile aberrazione del comportamento? Rimane davvero così difficile, non dico accettare, ma comprendere le sue azioni? Dar loro un senso?

Quello del dare un senso è un altro tema affrontato, in modo indiretto ma assolutamente chiaro, dal film stesso. Arthur lamenta una mancanza di senso nella sua vita. Troppi i buchi neri nella sua storia, che riempirà solo alla fine, e tanta la sofferenza.

E quello del dare un senso alla sofferenza del paziente, ai suoi sintomi, alla luce della storia costruita, e talvolta ricostruita col paziente, è forse il concetto cardine, il punto di partenza fondamentale e imprescindibile che impariamo a conoscere e ad agire in seduta al Centro Studi e Applicazione della Psicoterapia Relazionale di Prato.

"Senso" da non confondere con "causa".

La causa della sofferenza porta a un concetto medicalizzante che spiega il sintomo alla luce di una "deformità" clinica, come qualcosa che non funziona, o funziona male, nel sistema-paziente. Una devianza dal sano e dal socialmente efficace.

Il senso ha tutto tutto un altro significato. Si tratta in questo caso di un senso "relazionale", con gli altri e con l'ambiente che ci circonda, del sintomo, che viene visto non come una risposta aberrante, malata, priva di logica, un guasto del sistema, ma come una riposta omeostatica, funzionale e legittima, messa inconsapevolmente in atto dal paziente per permettere a lui e a chi gli sta intorno di andare avanti, così come sono, nel modo migliore possibile.

Sotto quest'ottica il sintomo ha perciò un valore salvifico, è un atto eroico, l'estremo sacrificio che il suo portatore compie per permettere agli altri membri del suo sistema di continuare a vivere alle condizioni cui tutti, inconsapevolmente, hanno deciso di vivere.

Si può dire lo stesso di Arthur? La sua risata, per esempio. Quella risata piena, massimamente sofferta, rantolante per gli sforzi con cui il personaggio cerca di ricacciarla in gola. Quella risata così dissonante, che esce fuori in tutta la sua inquietante forza in contesti e situazioni in cui non è giustificata (?), è davvero così "senza senso"?

Al Centro Studi di Prato ci viene insegnato ad utilizzare un dispositivo che trovo di massima efficacia, all'interno di un processo psicoterapeutico: la restituzione. La restituzione altro non è che la storia portataci dal paziente rielaborata, scritta e letta in seduta, in modo tale da fare emergere il senso della sua sofferenza. In modo tale da gettare le basi per una presa di coscienza che liberi il paziente dalle sue convinzioni radicate, scontate e banali, e che possa dare a lui modo, successivamente, di non servire più una funzione omeostatica, che mantenga tutto uguale, ma trasformativa, che cambi, rivoluzioni, curi se stesso e il sistema in cui è immerso.

In terapia individuale ci viene consigliato di stilarla e leggerla alla fine della terza seduta.

Voglio fare un gioco: supponiamo di aver avuto modo di vedere Arthur almeno tre volte, durante le vicende del film, magari dopo la fine del "lavoro" svolto con i servizi. A quel punto Arthur non ricorda ancora il suo traumatico passato, presumo dunque mi racconterà, in un modo o nell'altro, quello che ho visto fino a quel punto nel film (meno il triplice omicidio).

Probabilmente questo è quello che gli restituirei alla fine della nostra terza seduta.

"Arthur, ascoltarla mentre mi parla di sé mi dà la sensazione di leggere un romanzo dai toni cupi, oscuri. Un romanzo con diverse pagine difficili da leggere, forse per degli scarabocchi fatti sopra alle parole furiosamente, forse per l'usura...

Quando le ho chiesto di raccontarmi la sua storia, ho notato che ha enormi difficoltà a narrarsi in modo lineare, soprattutto quando arriviamo a parlare della sua infanzia.

Ma sono rimasto molto colpito dalla premura con cui lei si prende cura di sua madre. Una premura che non si limita al nutrirla, lavarla, vestirla, imbucare per lei lettere che sa benissimo non avranno mai risposta.

Il modo in cui lei si prende cura di sua madre è molto più profondo, viscerale. Si basa su una lealtà assoluta, che la lega a doppio filo alla promessa fattale tanto tempo fa: di portare gioia e risate nel mondo.

Tale è il compito che le è stato affidato, tale è il pegno d'amore che ha elargito.

Questo le viene riconosciuto da sua madre, che con gratitudine e riconoscenza la chiama affettuosamente Happy, che con orgoglio le ricorda che lei non ha mai pianto, né mai si è arrabbiato. Ma che ha sempre avuto un sorriso da donare, in qualsiasi circostanza. A qualsiasi costo.

Un riconoscimento questo che, probabilmente, l'ha guidata verso diverse conclusioni, nella sua vita.

L'ha guidata a scegliere un mestiere tra i più difficili e potenzialmente fra i più soddisfacenti, quello del clown, che la mette nella possibilità di portare un po' di gioia nel cuore di bambini affetti da malattie incurabili, ma che la espone anche allo scherno e alle violenze immotivate di passanti annoiati e frustrati dalla vita che non hanno niente di meglio da fare che prendersela con lei quando cerca di far promozione ai negozi, vestito da clown.

Conosce l'opera "I Pagliacci" di Leoncavallo? Le cito i suoi versi più famosi: "Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t'avvelena il cor!"

E lei ride Arthur! Ride! Dolorosamente, ride e continua a farlo, perché forse sarebbe troppo alto il prezzo da pagare per l'abbandono della sua missione.Troppo alto il rischio di deludere sua madre, la cui unica fonte di gioia è quella di avere un figlio che si prende cura di lei, sempre col sorriso, senza mai arrabbiarsi, mai versare lacrime.

Troppo alto il rischio di perdere la caratteristica che forse lei pensa sia l'unica che la rende meritevole di essere amato: la sua allegria, i suoi sorrisi, le sue risate. E lei, Arthur, ride! Ride per non piangere disperatamente, ride per non arrabbiarsi furiosamente. Ride, perché non può rinunciare al sacrificio richiesto dalla sua missione. L'unica cosa che forse dà un senso alla sua vita.

Leggo, tra le pagine del diario che mi ha portato, questa frase:

"Spero che la mia morte abbia più senso di quanta ne abbia mai avuta la mia vita."

Io spero, piuttosto, che lei riesca a trovare un senso alla sua vita, al suo dolore, al suo futuro. Mi auguro sia disposto a ricostruire, insieme a me, la sua storia. Sono poche le cose che ti fanno soffrire come il dover continuare a vivere senza avere una tua storia personale che ti definisca, per quanto dolorosa possa essere. Non c'è sacrificio più doloroso di quello fatto senza conoscerne il motivo fino in fondo.

Mi auguro che riesca a trovare un modo diverso di onorare la sua missione. Un modo che le permetta di conciliare ciò che lei fa con ciò che lei è.

Perché lei, Arthur, non è un clown, ma un uomo. E un uomo ha diritto di piangere quando è triste, di urlare e battere i pugni quando è arrabbiato, di tremare e gridare quando è spaventato, e, nonostante tutto, ha diritto ad essere amato e accolto anche nelle sue fragilità".

Articolo scritto dal Dottor Luigi Monticelli, iscritto all'Ordine degli Psicologi della Toscana

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Scritto da

Dottor Luigi Monticelli

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Commenti 3
  • Sasi

    È davvero un bell'articolo! Complimenti

  • Rosaria D'Ascoli

    Bellissimo il suo articolo. Anzi, molto di più che bellissimo, ma non trovo parole migliori. Ha risvegliato in me un ricordo del passato e stimolato su una riflessione che non avevo mai fatto: non c'è sacrificio più doloroso di quello fatto senza conoscerne il motivo fino in fondo. Grazie

  • Dott. ssa Manuela Iside Alberti

    Di tante tante idiozie che ho letto...questa analisi FINALMENTE porta per me un senso di dignità leale ..vera al film .

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