Autolesionismo di alcune pratiche identitarie: PARTE 1

Breve saggio sulla possibilità di sovrapporre comportamenti autolesionisti a riti identitari e come questi siano in relazione circolare.

14 SET 2016 · Tempo di lettura: min.
Autolesionismo di alcune pratiche identitarie: PARTE 1

Una mattina di quelle K.S. si svegliò nella sua classe. Frequentava la quinto liceo dello scientifico. Era preda di un attacco depressivo di insolita forza, cullato da istinti autodistruttivi e pene amorose.

Confidandosi con il suo amico F.P. cercava di trovare pace e serenità stretto da quella morsa soffocante, buia, che in quel periodo spesso lo sorprendeva all'inizio di un nuovo giorno. F.P. era considerato un po' da tutti un "pazzo genialoide" e non a caso era il suo compagno di banco e di tanto altro. Condividevano gli stessi gusti musicali, stesso modo di pensare, stesso umorismo e insomma la stessa innata passione/predisposizione per Thanatos ed affini.

Chiedendogli consiglio su come slacciarsi da quella sensazione, facendo presente che il solito whisky-limone e zucchero a colazione non bastava più (alla buonanima di Bukowski: Super – Io di quel periodo), F.P. incominciò a pensare. Gli occhi brillarono e in pochi secondi, come da sua consuetudine, aveva trovato una risposta. Era un palliativo somatico, certo, non psichico, ma K.S. gli voleva bene, e anche lui: si fidava. Non obbiettò un secondo davanti alla sua proposta. Si informò solamente sui perché e i percome. Approcciò anche stavolta alla questione sollevata difendendosi con il solito muro razionale, scudo di ogni stimolo fenomenico che impattava in quel periodo.

Non faceva una piega la sua idea. «Proviamo», disse. La soluzione era basata sul presupposto di una stimolazione esogena di endorfina provocata da una bruciatura.

Si, gli consigliò di bruciarsi per stare meglio: la prima volta consistette nel tenere acceso a lungo un accendino per poi stamparlo con forza sul dorso di una mano.

La sensazione fu molto piacevole e rimase colpito dalla mancanza di quel dolore che comunque aveva pronosticato: niente. Solo tanta e gradita endorfina che sarebbe diventata un'amica da lì in poco tempo. Insieme a tante altre.

Da lì iniziò un uso incontrollato, poi abuso, di quella tecnica "terapeutica" fino a derive eclatanti. La porta era stata aperta e incominciarono altre sperimentazioni.

Incominciò con l'accendino, poi le sigarette, poi scaldava le attache. E si marchiava. Per arrivare a diventare un pioniere del campo tatuandosi a fuoco sul braccio durante l'ora di italiano il nome della ragazza che gli scaldava il cuore (!), la stessa che diede lo spunto all'inizio di queste pratiche. E non solo: scoprì un paio di anni dopo che negli Stati Uniti avevano (re)inventato una nuova moda: lo Scaring (scarificazione), il Branding (marchio a fuoco), il Cutting (incisione). Pensò che in ogni modo era stato un innovatore. E gli altri lo guardavano con rispetto e un po' di timore. E ne era orgoglioso. Al massimo doveva inchinarsi temporalmente a chissà quale tribù africana della quale ai tempi non aveva cognizione e che aveva guidato il suo Thanatos su strade archetipiche definite.

Spille da balia, lamette da barba, chiodi, mozziconi di sigaretta, accendini, attache, erano diventati i suoi nuovi compagni di giochi. Questi si andavano ad unire ai vecchi: alcool, fumo, erba, l.s.d., anfetamine, antidepressivi farmaceutici, pasticche, eroina. I nuovi arrivati avevano una funzione fondamentale: di decompressione dalla depressione indotta dalla fine dell'effetto delle sostanze psicotrope. Unita alla depressione endogena di fondo si completavano in una combinazione esplosiva, o sarebbe meglio dire implosiva.

E così si era creato un piccolo gruppo, o sarebbe collimante parlare di tribù, che comprendeva adepti convinti, fino a curiosi simpatizzanti. Erano gli esclusi, gli emarginati sociali portatori di una presunta superiorità intellettuale: gli altri non potevano capire (e neanche loro, ma questa è un'altra storia). La coalizione fungeva da scudo: era efficace. Si difendevamo a vicenda: la solitudine e la malinconia che li distingueva si trasformava in gioia e spensieratezza accompagnati dalla "Loro" (in senso stretto…era di proprietà) musica, storia, poesia. Dai loro sogni.

E si aiutavano, si controllavano a vicenda per tentare di evitare che qualcuno abusasse. Ma il controllo aveva un piccolo problema proiettivo: nell'abuso leggevano il loro profondo dolore. Poteva essere compensato solo da una superficiale comprensione della loro profonda richiesta di aiuto: mascherata da atti estremi. E allora tacevano. E speravano che non fosse troppo: questo era il pensiero, non si arrivava a mentalizzare le conseguenze. Speravano che non fosse troppo. E basta.

Fino al ritorno dell'amico sano e salvo. Come da una prova iniziatica. Il calore dell'abbraccio era sensibile, ce l'aveva fatta. Il gruppo era salvo. Dal mondo esterno era salvo. Questo provavano…

Ma nel loro intimo sapevamo che erano soli, solissimi. E la via di fuga era il dolore fisico. Sfuggire da quello psichico non si poteva, era pacifico. Ma quello fisico era strano: controllabile, e appagante. Il corpo era loro, ma in un'accezione diversa dal senso comune: era una cosa della quale potevano disporre senza dover rendere conto a nessuno, come se fosse un oggetto, privatamente intimo. Da maltrattare come una prigione, provocare, portare al limite. Punirlo per la sensazione di permanenza forzata che trasmetteva: il contenitore del male, del dolore. Del Persecutore. Con un effetto collaterale piacevolissimo: le sue difese naturali. Dolore: endorfina. Emozioni (forti): adrenalina. Era un tornare alle origini dopo qualche trip o magari una forte bevuta.

Si creava un'altalena tra l'uso di sostanze stupefacenti a fini terapeutici per evadere dal proprio corpo, per sentirsi meglio, per non pensare, pensare diversamente o a volte per far star bene proprio il corpo stesso e la sua persecuzione. Tutti ignari che l'oggetto delle persecuzioni erano proprio loro stessi.

Epilogo

Una sera K.S. si godeva un suo trip: si trovava in un campo di calcio, steso, nell'erbetta. Il campo non finiva mai e si sentiva perdersi nel suo espandersi senza fine. Era sempre più piccolo. Era piacevole. Pensò che non avrebbe voluto svegliarsi più.

Finito il trip K.S. incominciò a spegnersi le sigarette sul dorso della mano e confidò a D.F. (il suo migliore amico) che non avrebbe trattenuto la sua vita avvicinandosi ad un muretto di un belvedere. Fortunatamente c'era D.F..

Clinicamente teorico

Un breve antefatto mi è sembrato doveroso in quanto ritengo che sondare l'humus che nutre una patogenesi sia imprescindibile da un qualsiasi tipo di comprensione. In questo caso psicosociale. Non ho voluto affrontare volontariamente l'aspetto familiare in quanto credo meriti un superiore approfondimento, separato, vista la sua peculiare eterogeneità.

Perché un punto di vista psicosociale?

Perchè è nel sociale che il tipo di autolesionismo in esame, naturalmente di matrice psichica, cerca la propria riconoscibilità essendo connotato da chiare manifestazioni esibizionistiche ed è qui che si incasella perfettamente nel suo scopo secondario. Da tenere in considerazione anche la caratteristica aggregativa tipica di tale condotte: sia che si tratti di autolesionismo fisico, di abuso di sostanze semplice o altro, distinguerò due sovracategorie della scopo in autolesionismo identitario e autolesionismo annichilente a seconda delle finalità rituali.

L'autolesionismo identitario

Nell'autolesionismo identitario abbiamo la possibilità di isolare compiutamente caratteristiche qualitative dell'atto che lo collocano, a partire da un agito nel reale, in un simbolo nello psichico e quindi utilizzabile in un percorso di comprensione.

L'autolesionismo annichilente

Nell'autolesionismo annichilente possiamo invece distinguere come il comportamento agito sia una deviazione patologica del normale fluire libidico con un effetto autodistruttivo: la libido che non trova l'oggetto si trasforma in aggressività. Anche nella sua nuova veste l'energia libidica non riuscirà però ad essere collocata su di un oggetto utile: questo ulteriore fallimento nell'investimento è dovuto alla enorme forza distruttiva a livello simbolico dell'energia trasformata, perché originariamente inibita nella meta. Una sublimazione negativa che si autorivolge implosivamente al soggetto in una deriva masochistica.

Si intuisce comunque un sottile rumore di fondo comune: la ricerca di aiuto, un codice comunicativo per la parte dell'Eros, un messaggio, una ricerca della disintegrazione dalla parte del Thanatos. Malesseri gruppali: non che siano determinanti rispetto alla storia individuale, mi auguro non passi questo concetto, ma significativi in quanto spazio comune dove depositare le proprie frammentarie identità provenienti da storie diverse ma, in un ipotetico percorso piramidale, sfocianti nelle stesse condotte a livello statisticamente significativo e nella stessa attitudine mentale praticamente con tendenza all'uno. Il motivo dominante imprescindibile è individuabile nella qualità identitaria di questi soggetti: identità adolescenziali, non in senso temporale (naturalmente), connotate nell'oggettivazione di questa modalità di funzionamento. Permanente.

Potrà essere utile in tal senso adottare come termine di paragone dei riti iniziatici antropologicamente ancestrali all'interno di storiche organizzazioni societarie dandone una riassuntiva panoramica. Li definirò semplicemente, per comodità, momenti di aggregazione sociale dove si sancisce un passaggio generazionale tramite prove più o meno cruente, riconosciute dalla comunità di appartenenza. Il quid di tali iniziazioni è la funzione contenitiva e di attribuzione di responsabilità: c'è un passaggio netto di status dove si possono individuare, con modalità zero – uno, consegne di codici comportamentali. Nelle comunità prese in esempio è riscontrabile una caratteristica fondamentale: la presa in consegna del "nuovo adulto". Verrà aiutato e sostenuto per poter meglio adempiere ai propri diritti doveri e formato tramite la pratica educativa dell'esempio: dall'integrazione sociale fino ad una interiorizzazione psichica completa degli oggetti sociali condivisi. Il supporto dato ha un'altra faccia della medaglia conosciuta e sempre condivisa: le severe sanzioni esercitabili nei casi di mancato adempimento alle mansioni assegnate. Lo scenario sommariamente rappresentato è un ingranaggio funzionale di un bisogno sociale filogeneticamente percepito e culturalmente espresso: la sopravvivenza della comunità. Utile sarà citare brevemente alcune delle regole societarie di un particolare sottotipo di comunità anche se evidentemente non ancestrale ma utile al nostro scopo: la Yakuza.

Continua!

Parte 2: https://www.guidapsicologi.it/articoli/autolesionismo-di-alcune-pratiche-identitarie-parte-2

Parte 3: https://www.guidapsicologi.it/articoli/autolesionismo-di-alcune-pratiche-identitarie-e-annichilenti-parte-3

Parte 4: https://www.guidapsicologi.it/articoli/autolesionismo-di-alcune-pratiche-identitarie-e-annichilenti-parte-4

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Scritto da

Dott. Simone Nifosi

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