Trovare un complice... un amore

Trovare un complice, un amore felice, è una esperienza tanto agognata, quanto, a volte, difficile. Perché?

23 AGO 2018 · Ultima modifica: 27 AGO 2018 · Tempo di lettura: min.
Trovare un complice... un amore

Trovare un complice è una questione di fortuna? E' figlio della capacità di accontentarsi? È conseguenza di una certa stabilità interna? E' l'esito di un buon karma?

Certamente le relazioni migliori mi appaiono quelle che non sono basate sul bisogno, quanto piuttosto sull'autonomia, sulla scelta, così la compagnia altrui diviene un piacere, il piacere della comunione.

Diverse sono le riflessioni sul tema, però. Per esempio, la questione dell'innamoramento è ambigua. Ho l'impressione che, a volte, ciò che viene definito "innamorarsi" sia piuttosto una sorta di smania, una specie di intensificazione del desiderio dell'Ego di possedere (oggetti, denaro, fama) esseri umani: se li conquisto, li possiedo, quindi valgo di piú!

E poi ci sono le idealizzazioni a peggiorare la questione. E' il caso di quando ci si innamora di una propria produzione interiore, di una personalissima immagine dell'Altro, a cui si chiede implicitamente di essere conforme ai propri ideali, alle proprie aspettative, tanto che qualsiasi variazione genera feroce disillusione, spazzando via quel vento di passione. Così, da un focoso pathos iniziale, che produce quella inebriante sensazione di farfalle nello stomaco, si scivola in una tremenda disillusione, che non lascia più spazio a negoziazione alcuna.

Altrettanto evidente mi sembra che la tendenza a focalizzare negli altri solo i presunti limiti, conduca, tristemente, a una deprivante condanna dei malcapitati, soggetti da scartare, inevitabilmente, perché si scambiano tali presunte mancanze per la totalitá della loro individualità.

A tutto ciò si aggiungono le insidiose tendenze narcisistiche, latenti o manifeste, che non sono buone alleate in amore: "Ego, Ego del reame, ci sarà mai qualcuno adatto a me in questo reame?" "No!".

E poi ci sono i disillusi, i feriti, che all'amore non credono più, eppure non disdegnano un po' di fugace tenerezza. Ballano col destino e scartano tutte le opportunità di intimità. Hanno paura, ma non lo danno a vedere, e forse nemmeno si accorgono di essere terrorizzati. Accettano la vita per come si presenta loro, senza riprovarci: guardare dall'alto l'amore li fa sentire forti. Forme di dipendenza affettiva, in fondo, fatte di indifferenza vuota, costituita da un evitamento compulsivo delle relazioni intime, alimentato dal terrore di potersi liquefare se si lasciasse entrare una persona nella propria vita.

Altrettanto pericoloso è il versante opposto, quello in cui si tende a buttarsi in una relazione in toto, chiedendo all'Altro di prendere tutto, quasi a dire: "Salvami la vita!". La relazione di coppia viene vissuta come condizione indispensabile per la propria esistenza, senza la quale non è possibile sopravvivere. Terrore dell'abbandono, devozione estrema, gelosia, incapacità di tollerare la solitudine, senso di colpa e rabbia inquinano il legame, fatto di simbiosi e fusionalità.

Anche la codipendenza affettiva presenta serie difficoltà. E' quella in cui ci si lega ad un partner in evidente necessità, meccanismo che ricorda la sindrome della crocerossina, rapporto che prevede uno squilibrio di potere, un legame mediato dalla condizione di bisogno, una forma di narcisismo per certi versi, dinamica zoppicante che si spezza quando il partner fragile guarisce, decidendo di recidere il rapporto anche piuttosto bruscamente, come a volere spazzare via quella relazione emblema di un momento di difficoltà.

Ulteriore esempio di relazione distorta è quella che tendono a creare i contro-dipendenti affettivi. Persone che hanno imparato molto presto a fare a meno del caregiver (figura legata all'accudimento, i genitori di solito, o sostituti), persone che hanno fatto dell'autonomia un'ancora di salvezza, al fine di gestire al meglio un possibile rifiuto o abbandono, persone a cui, però, è rimasta la latente sensazione di essere sbagliati o immeritevoli. L'autonomia raggiunta è, dunque, fittizia, fatta di un equilibrio precario, che spinge a non mettere a rischio la propria emotività, passibile di essere nuovamente mortificata. Dietro all'illusione di non avere bisogno di nessuno si cela una dipendenza irrisolta, esponendo la persona a rischio di dipendenza da una gratificazione compulsiva alternativa (sostanze o comportamenti a rischio).

Tutte queste sono dinamiche che non consentono di realizzare una unione felice. In particolare, il dipendente affettivo ha bisogno di mantenere il rapporto all'interno di una forma di idealizzazione cristallizzata, senza possibilità di un adeguamento sul piano di realtà. Le radici delle sue difficoltà sono lontane nel tempo, ferite infantili mai guarite, basate su un rifiuto precoce. Il dipendente ama l'altro idealizzandolo, un tipo di amore che ha provato per un genitore irraggiungibile, dal quale si è sentito tradito.

Trovare un complice, un amore felice, è conseguenza di un buon equilibrio interiore, fatto di ferite suturate, capacitá di donarsi pur mantenendo i propri confini saldi, capacità di prendersi cura delle relazioni, senza eccessiva compiacenza, con intelligenza emotiva.

Penso, per esempio, alla capacità di empatizzare, di esplicitare i propri bisogni in modo trasparente, senza manipolare l'Altro per vederli appagati; la capacità di spiegare l'effetto degli altrui comportamenti sui propri sentimenti, quando si é feriti, senza aggredire o svalutare; la capacità di rimanere in apertura quando trattasi di ascoltare l'effetto dei propri comportamenti sull'Altro, senza chiudersi o difendersi; la capacità di assumersi le proprie responsabilità, segno di maturità e dignità personale; la capacità di chiedere scusa, segno di pienezza e solida autostima; la capacità di fare, a volte, un passo indietro, segno di forza, non di debolezza.

Ed è allora che un amore si trasforma nella sensazione di aver trovato un complice, con il quale danzare un passo dopo l'altro, fiduciosi di poter invecchiare insieme, pur affrontando le avversità.

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Scritto da

Dott.ssa Luisa Ghianda

Laureata in Lingue e in Psicologia, ha approfondito prima la psicologia del lavoro poi la psicologia clinica. È counsellor professionista, Direttore di Psicodramma e conduttore di gruppo con Metodi Attivi, ipnologa. Si occupa di sviluppo personale, organizzativo, educativo, convinta che in ogni essere umano ci sia una grande possibilità di trasformazione.

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