Come gestire un forte legame affettivo sincero con il proprio psichiatra

Inviata da V205 · 25 mag 2020 Autorealizzazione e orientamento personale

Buongiorno,

ho 28 anni e sono seguita da uno psichiatra da circa due anni.
Nello stesso periodo iniziai anche un percorso di psicoterapia abbastanza "tormentato": non mi trovavo affatto bene con il primo psicologo psicoterapeuta e dopo quasi un anno decisi di cambiare, consultai diversi specialisti ma nessuno lo sentivo disposto all'ascolto empatico e professionale, ho trovato solo tante parole standardizzate, superficiali e soprattutto di nessun aiuto. Alla fine comunque, anche su consiglio del mio psichiatra, ho effettuato una scelta e ho iniziato un nuovo percorso con un nuovo psicoterapeuta con cui sentivo leggermente più affinità. Purtroppo anche questa volta il rapporto terapeutico è stato completamente inesistente perché la situazione è sempre la stessa: estrema superficialità e parole di nessun aiuto.
L'unico vero aiuto ad andare avanti l'ho ricevuto dal mio psichiatria, persona splendida dal punto di vista umano e professionale.
Accenno brevemente di essere una persona che da anni lotta tra depressione, disturbi borderline, autolesionismo, forti sintomatizzazioni, una vita totalmente alla deriva.
Sono sola, con una famiglia ipercontrollante e allo stesso tempo inesistente per i miei reali problemi che non sono riuscita a gestire. Dopo anni di faticosa lotta sono riuscita a iniziare l'università. Il mio sogno era ed è psichiatria e l'ambito medico. Ma per l'ennesima volta non sono riuscita ad inseguirlo (non mi dilungo ulteriormente sui motivi) e ho dovuto deviare su psicologia. Più studio psicologia, più vado avanti con la psicoterapia e più la rabbia, la delusione, l'insoddisfazione e il rimorso aumentano. Ma oramai è chiaro che non ci sia più niente da fare, anche perché sono letteralmente stanca della vita e mi ritrovo a dovermi accontentare, come in ogni ambito della mia vita, anche in ambito professionale e soprattutto di realizzazione della persona. In questo contesto la psicoterapia mi fa l'effetto di una caramella alla menta per curare una polmonite.

Ho cercato di riassumere il più possibile, con grandissima fatica, un mio quadre generale per poter centrare il punto di questo mio intervento.
In questo quadro per me soffocante l'unica persona di riferimento è il mio psichiatra a cui mi sento fortemente legata, forse anche troppo.
Con lui ho un'affinità mentale unica e ogni volta attendo il momento di poterlo rivedere e parlarci. Dato che da anni non sento più bene le emozioni, letteralmente ricoperte da angoscia rabbia e vuoto, non capisco se si tratta di una sorta di amore paterno o di un innamoramento. Quello di cui sono certa è che non si tratta di nulla che possa rientrare nella sfera del transfert, è un sentimento genuino nei confronti di una persona che rappresenta tanto per me. Ma allo stesso tempo so bene di non essere niente per lui e che lui fa tutto quello che fa per lavoro (anche se ha fatto cose che penso in pochi avrebbero fatto nella sua posizione) e con ogni paziente probabilmente.
Inoltre io sono una persona molto difesa nelle relazioni di ogni tipo e in parte lo sono anche lui ancora. Ma nonostante ciò da due anni questo mio sentire è progredito molto.
In tali situazioni vi è la possibilità o la necessità che io riferisca tutto ciò al mio psichiatra per analizzare insieme la situazione? Gli ho solo accennato alcune volte di quanto il suo aiuto per me sia stato prezioso e che lo ringrazio per la sua gentilezza e disponibilità. Ma parliamo di poche parole e che non lasciano trasparire il vero sentire. Ho però il terrore di riferirgli tale situazione perché temo per le conseguenze. Potrebbe non seguirmi più (parliamo di un CSM pubblico) o affrontare il discorso in modo che ne esca maggiormente distrutta? Probabilmente ne dovrei parlare con una figura con cui conduco la psicoterapia ma ripeto che non vi è minimamente un rapporto di fiducia e alleanza terapeutica.
Al di fuori del rapporto con lui, sembra sempre più che io non abbia più niente da perdere e vorrei affrontare questo punto importante per me.

Grazie a chi dedicherà del suo tempo per poter accogliere le mie parole.

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Miglior risposta 3 GIU 2020

Buongiorno V205.
Psichiatria vs psicologia è un’opposizione superata (o almeno dovrebbe esserlo dopo anni di una psichiatria che era diventata troppo biologistica e medicalizzata): la loro integrazione è l’approccio che nella maggior parte dei casi dà i risultati migliori. Le “due psi” stanno in polarità dinamica e non in opposizione dicotomica. Curare un disturbo in cui interagiscono molteplici fattori necessita di un approccio integrato. Quello che manca ad un approccio meramente farmacologico è che per definizione non è raffinato (non è chirurgico, se vogliamo restare nel campo delle metafore mediche) e di certo non può agire direttamente sui significati. Pensi a qualcuno con una lunga malattia psicotica in acuzie: sarebbe velleitario pensare ad una psicoterapia prima che il paziente venga compensato grazie ai farmaci. Ma una volta compensato? Pensi solo all’impatto che significa per un paziente realizzare, nel momento in cui si sente meglio grazie alla terapia farmacologica, il deserto di opportunità e relazioni che la sua malattia ha causato in tutti quegli anni: non c’è farmaco che possa dare senso a tutto ciò a meno di non usarlo col mero scopo di pesantemente sedare lo sconforto. Se posso quindi prendere in prestito la sua metafora trovo che spesso affrontare i disturbi solo con la psicoterapia o solo con la psichiatria sia in entrambi i casi come curare una polmonite con una caramella. Quello che poi lei sembra ricercare dal suo psichiatra credo sia una relazione più psicoterapeutica, o quanto meno di beneficiare degli strumenti psicologici che appartengono anche a un buon psichiatra.
La questione quindi non sembra essere psicologia vs psichiatria. Semmai questo potrebbe farla interrogare sulla possibilità, e sugli eventuali motivi, di stare dividendo il mondo della cura in una parte buona (psichiatrica) e in una cattiva (la psicologia/psicoterapia). Sembra però che in vari modi lei sia stata indotta a ripiegare sulla psicologia dalla psichiatria: voleva studiare psichiatria ma si ritrova a fare psicologia; vorrebbe essere seguita dal suo psichiatra ma le tocca sempre deviare su psicoterapeuti che la deludono. Chiede infine un aiuto ad orientarsi su un sito di psicologi/psicoterapeuti e il rischio che le risposte (quanto meno la mia) siano deludenti certamente esiste. Forse l’oscillare tra questi due punti a cui sembra essere costretta dai fatti potrebbe avere un significato e non essere del tutto arbitrario. Forse la risposta va costruita in maniera composita.
Lei ha avuto una storia non facile e dolorosa a cui brevemente accenna ma la cui portata è intuibile tra le righe di quanto scrive. Quello che credo che lei cerchi e di cui ha bisogno è un senso di cura dedicata in una relazione: non ha bisogno di caramelle (cioè di una relazione “formale” - nel senso che non ha sostanza- e che è magari connotata da ipocrisie professionali) ma non ha bisogno neanche di pillole miracolose di qualsivoglia genere. Forse dalla psicoterapia potrà sentirsi tradita ma mi chiedo appunto se non cerchi quello persino nel suo psichiatra. Quello di cui forse sente bisogno è una relazione autentica: in una relazione del genere, qualora le delusioni anche accadessero, avrebbero un altro significato. In una relazione autentica che si è costruita faticosamente in due, le delusioni quando capitano (e capitano sempre) possono essere ricondotte al suo interno, vissute e discusse, non rompono il contenitore.
Riguardo poi i sentimenti verso il suo psichiatra è d’obbligo una precisazione. Di nuovo non esiste una dicotomia tra transfert e sentimenti autentici. Perché mi è sembrato che la possibilità che qualcuno possa disconoscere la verità dei suoi sentimenti sia una sua preoccupazione che trasparisse. Ciò che eventualmente si prova nel transfert non è un sentimento fittizio. Parlare di transfert ci dice qualcosa sulle orgini del sentimento ma non è un implicito sulla sua non genuinità. Nel transfert passato e presente si intrecciano (non si tratta del primo come una maschera messa sul secondo). Ma quando il transfert si manifesta in terapia accade – “magnificato” – qualcosa che ci capita continuamente anche nelle relazioni quotidiane in cui il passato si mescola al presente, eppure nessuno lì si sogna di pensare che non siano autentiche. Che insomma i suoi sentimenti siano transferali o meno è in questo contesto una decisione poco importante perché non si sta decidendo sulla verità di ciò che prova.
Se lei vivesse la relazione terapeutica che desidera col suo psichiatra credo sarebbe inevitabile anche per lui talvolta deluderla. E’ impossibile non perdere a volte la sintonia, ma quello che definisce una persona che si cura noi non sono in momenti in cui umanamente fallisce nell’essere sintonizzato ma piuttosto, quando accade, è il suo sforzo nel ripristinare la sintonia al fine di curarsi di noi.
Riguardo il suo dubbio se parlare o meno col suo psichiatra delle sue emozioni: questa è una decisione che deve prendere sentendola propria quindi non posso darle molti suggerimenti salvo dirle che le relazioni terapeutiche si basano anche sul mettere in circolo nella relazione i sentimenti e le emozioni provate oltre ai pensieri. Il suo psichiatra si prenderà presumibilmente cura di quando di se stessa gli portertà in merito a quest aparte di lei ma non potrà che farlo come suo psichiatra curante, non come figura paterna o romantica nel caso lei decidesse esserne innamorata. Le direi di parlarne con il suo psicoterapeuta se non fosse che da quanto capisco lei non si fida e non si sente capita da lui (ma allora forse dovrebbe parlargli del fatto che lei non si senta capita da lui). Potrei suggerirle di trovare uno psicoterapeuta con cui si senta compresa, fermo restando che dovrà provare a concedere a qualunque psicoterapeuta il beneficio del dubbio: nessuno può leggerci come se fossimo poche righe scarabocchiate su un foglio invece di persone complesse. Una relazione (anche un’alleanza terapeutica) va costruita con pazienza e le delusioni sono inevitabili. Un’alleanza terapeutica non è già data a priori ma va costruita insieme, in alleanza appunto. Questo vale per il paziente ma vale anche per il terapeuta che deve saper talvolta rinunciare a risposte precotte di scuola e provare a mettersi in gioco nel rapporto col paziente, ammettendo gli errori quando sbaglia, eccetera. E’ difficile distinguere quando qualcosa di uno psicologo è incompatibile con la possibilità di costruire una relazione con esso da quando il senso di delusione ci dice semplicemente che la relazione è possibile ma ancora da costruire: dovrebbe avere pazienza, dovrebbe portare le sue emozioni e le sue delusioni in terapia, dovrebbe resistere alla tentazione di dare tutto acquisito di una relazione appena nata ma al contempo saper riconoscere i segnali dentro di lei che dovessero parlare non tanto di delusioni (appunto inevitabili) ma di una sensazione di non sentirsi accolta per chi lei è che persistesse nonostante il proseguire e l’approfondirsi della relazione terapeutica.

Dott. Antonino Puglisi Psicologo a Torino

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