Chiari sintomi depressivi. Vale la pena tentare la psicoterapia?

Inviata da Roob-in · 9 gen 2024 Depressione

Buona sera a tutti.
Sono un ragazzo di 23 anni. Vorrei descrivere il mio problema non per capire in quale misura sia necessario rivolgermi a un professionista. Per questa ragione vorrei fornire un buon grado di dettaglio nella descrizione della situazione, anche a costo di dilungarmi.
Vorrei premettere che sono attualmente seguito da una (bravissima) counselor psicologica che però, come ovviamente saprete, è in grado (o semplicemente ne ha la facoltà) di fornirmi un aiuto solo circostanziato a obiettivi molto precisi. In particolare mi ha di recente aiutato ad affrontare lo scoglio della tesi di laurea triennale in storia della filosofia, che ho completato ormai tre mesi fa conseguendo la laurea con ottimi risultati. Il problema è che tutto questo lavoro mi è costato un periodo di stress veramente tanto, ma tanto intenso e prolungato nel tempo: da febbraio 2023 a dicembre 2023 non mi sono concesso praticamente neanche un giorno di riposo, portandomi, complice anche una mai superata e recentemente riacutizzata ansia sociale, a limitare drasticamente i miei contatti sociali. Ho vissuto murato in casa per tutto questo tempo, cosa che ha creato in me un forte senso di alienazione. Ho sofferto di sintomi depressivi direi piuttosto gravi, fino all'insorgere di ideazioni suicidarie, che tuttavia non sono bastate a convincermi a prendermi del riposo. Ora, grazie all'aiuto della dottoressa che mi segue, al mio studio autonomo tramite consultazione di materiale divulgativo (che ho accuratamente selezionato secondo criteri di affidabilità), sono arrivato a un buon livello di consapevolezza della situazione - al netto ovviamente dell'inevitabile opacità di ogni individuo a se stesso. La mia famiglia, diciamo... non esattamente funzionale è stato un grosso ostacolo nel mio percorso di auto-individuazione, che a 23 anni (quando cioè dovrei già essere un adulto fatto e finito) è ancora tutt'altro che concluso. Nella vita ho sempre inseguito standard esterni. Da bambino adottavo tutti i comportamenti ai quali credevo essere condizionato l'amore dei miei genitori e delle altre figure di riferimento, il che mi ha portato, ad esempio, a praticare uno sport agonistico fino ai 19 anni nonostante lo detestassi con ogni fibra del mio corpo. E non perché mi fosse stato direttamente imposto, ma perché non avevo il coraggio di affrontare la delusione che questa scelta avrebbe comportato nei miei genitori e nei miei allenatori. Negli anni dell'adolescenza ho preso a frequentare la sottocultura punk solo perché speravo di trovare in essa un punto di riferimento comunitario per il mio bisogno di autoidentificazione. Iniziata filosofia all'università, infine (per farla molto schematica per criteri di brevitas già da me ampiamente trasgrediti), mi sono messo in testa che avrei dovuto (sottolineo: dovuto) essere un intellettuale geniale, innovativo e grandioso a tutti i costi, obbligandomi a leggere per ore e ore al giorno nonostante mancasse palesemente la serenità necessaria, in una sorta di bulimia intellettuale con la quale tentavo di recuperare gli anni delle superiori non esattamente spesi nel modo migliore. E naturalmente, su queste basi, una tesi di laurea che non fosse assolutamente straordinaria e degna di essere pubblicata nelle più prestigiose riviste internazionali non poteva che essere da me percepita come assolutamente inaccettabile, o meglio, se mi perdonate la volgarità, «una merda come il coglione che l'ha scritta», come amava ripetermi il mio simpaticissimo giudice interiore. Più in generale, come potete immaginare, la grossa mancanza della mia vita è stata il contatto con i miei desideri autentici e la mia stessa sfera emotiva, che sto tuttavia imparando a riconoscere e vivere a pieno e, soprattutto, sulla cui base mi sto sforzando di costruire la mia personalità. Tutto ciò è naturalmente legato a un'ansia veramente molto debilitante, di cui ho tuttavia imparato a conoscere - con tutti i miei limiti, naturalmente - il funzionamento. Ora sto modificando profondamente le mie abitudini, mi sto impegnando a seguire i miei interessi e la mia volontà. Vado a mostre, musei, prendo il treno per andare a trovare i miei amici di una vita ogni domenica, guardo film, leggo libri e libri trascinato dalla passione. Insomma, mi prendo cura di me.
La situazione sembra cioè in netto miglioramento non solo in riferimento ai sintomi specifici, ma anche dal punto di vista della direzione che sto dando alla mia vita. Cerco di gestire la stessa ansia, recuperando di volta in volta il contatto con il presente (passeggio, studio, leggo un libro, guardo un film ecc.) non appena si ripresenta il bisogno di rimuginare e mettere sotto controllo i pericoli percepiti, nella speranza di acquisire in questo modo nuovi schemi cognitivi (mi si passi il termine poco rigoroso).
E tuttavia è proprio la constatazione di questo miglioramento a farmi sorgere il dubbio. Perché com'è normale, mi porto ancora dietro gli strascichi di questo periodo di stress così intenso. A volte vengo travolto dall'angoscia e dalla tristezza e finisco a perdere ore e ore a scrollare lo smartphone per spegnere le emozioni; l'ansia torna a rapirmi e mi impedisce di fare le cose che mi piacciono - considerate che "le cose che mi piacciono" sono praticamente tutte argomenti di studio, sono diciamo un filosofo per passione e vocazione (non di certo per qualità mentale e culturale), quindi ho bisogno della massima serenità e concentrazione e l'ansia è una situazione anzitutto molto frustrante; mi torna la paura di ripiombare di punto e in bianco nel clima così doloroso e angosciante che mi sono appena lasciato alle spalle; la mattina mi sveglio bombardato da pensieri negativi (cosa che so essere uno dei sintomi più specifici che abbiamo a disposizione per l'individuazione di disturbi dell'umore), che però spariscono come per magia appena mi alzo dal letto. In buona sostanza, il mio umore è a volte molto buono come non lo era da anni e anni, ma nel complesso altalenante. Ed ecco dunque il perché della domanda e perché ho ritenuto di dovermi dilungare così: per quanto avete letto, ha senso che io segua il percorso, che mi sembra (ma senza che io ne abbia la certezza) andare nella direzione giusta, mio e della counselor che mi segue, oppure vale la pena tagliare la testa al toro e rivolgermi a uno psicoterapeuta, considerando tutta la fatica, l'impegno, il denaro e soprattutto il tempo che essa richiede? Ho naturalmente chiesto consulto alla dottoressa che mi segue, che però non ha fatto altro che rinviare al mio giudizio autonomo

Chiedo scusa per la lunghezza, ma ho ritenuto necessario fornirvi tutte queste informazioni per darvi l'idea più completa possibile della situazione.

Cordiali saluti e, naturalmente, grazie a chi avrà tempo e voglia di rispondermi.

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