20 MAR 2016
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Buonasera Stefania, non credo che uno dei parametri per giudicare un terapeuta siano i risultati. Mi spiego meglio: è chiaro che se una persona soffre, l'obiettivo minimo (dunque un risultato concreto) dovrebbe essere, quantomeno, una diminutio di tale sofferenza ed un contemporaneo miglioramento della sua qualità di vita. D'altronde, i risultati, soprattutto nel contesto psicoterapico, possono arrivare o non arrivare per mille motivi, sia interni che esterni alla relazione terapeutica. Questo perché la psicoterapia offre un contratto più incentrato sui "processi", ovvero si usano le conoscenze, strategie, esperienze e la persona del terapeuta per approntare un setting clinico che comprenda il problema e tenti di arrivare ad una sua risoluzione. In tal senso, dunque, non è un contratto sui risultati, come quelli sottesi a lavori più specifici e concreti. Potrebbe sembrare una "scusa" questa che molti terapeuti adottano quando, la faccio breve, un paziente non guarisce. Ma quando questo avviene, ripeto, vuol dire che sono intervenute cause (tra cui, certamente, una può essere anche il terapeuta) non preventivabili in anticipo. E qui mi aggancio ancora più direttamente alla sua domanda rispondendole non da terapeuta ma da paziente (lo sono stato, e per dovere di formazione e per bisogno personale). Innanzitutto, quando ho cominciato la mia terapia non mi sono fermato al primo collega consultato. Ho fatto tre "primi colloqui" e mi sono fermato al terzo: i primi due, per quanto mi sembrassero bravi tecnicamente, non mi avevano "agganciato" emotivamente. Li sentivo (ma non è detto per loro responsabilità, ma può darsi che le nostre personalità non erano adatte ad intraprendere un percorso tanto delicato insieme) distanti e non compartecipi. Il terzo mi ha agganciato da subito, ma "convinto" veramente nel tempo. E non perché siamo arrivati alla risoluzione di una "eventuale" sintomatologia, quella è ancora "eventualmente" presente...Ma perché mi ha trasmesso, direttamente e indirettamente, un modo di riflessione su come IO potevo arrivare a risolvere o, quantomeno gestire, la mia eventuale sintomatologia. Torno quindi al discorso sui processi: una metafora che noi terapeuti spesso utilizziamo è che la psicoterapia dovrebbe far sviluppare una "cassetta degli attrezzi" da utilizzare sia durante che dopo la psicoterapia e che sia utile alla gestione dei momenti difficili e di sofferenza da parte del paziente. Per rimanere nella metafora, la psicoterapia non costruisce una casetta di legno (perché sarebbe, quasi certamente, più la casetta di legno del terapeuta che del paziente), ma fa in modo che il paziente, con martello, chiodi ed assi (costruiti insieme durante il percorso terapeutico) si costruisca la propria casetta, a proprio uso e consumo. Nel tempo, dunque, ho capito che avevo trovato il professionista giusto quando mi ha fornito gli strumenti per cavarmela da solo (anche perché, prima o poi, il paziente DEVE cavarsela da solo), altrimenti siamo nel contesto per cui l'esterno mi da la soluzione ed io la applico senza essermi esposto, confrontato, senza aver messo niente o troppo poco di mio. Quella sarebbe la soluzione (oggettiva, per quanto giusta, del terapeuta, ma non soggettiva e sicuramente più utile, del paziente). Quel terapeuta, inoltre, mi offriva dei punti di vita alternativi a quelli che utilizzavo da anni per poter risolvere la mia eventuale sintomatologia. In tal senso era, dunque, discrepante (il mio orientamento lo chiama "perturbatore strategicamente orientato"), ovvero creava una frattura, in un setting protetto, che portava movimento (G. Bateson diceva che le informazioni si trovano dove esiste una differenza, non dove c'è uguaglianza), una crisi che, con il lavoro terapeutico, diventava generativa e foriera di ulteriori equilibri, sempre più complessi che generavano una stabilità che rimaneva tale fino ad una successiva sofferenza non gestibile con le risorse attuali, per cui si creava una ulteriore frattura generativa, e così via. Naturalmente non sempre il lavoro terapeutico è filato così liscio (anzi, più no che sì), ma evidentemente, quando le cose andavano bene il mio sistema andava verso una progressione ortogenetica, ovvero evoluzione complessa e giusta per me che mi permetteva di gestire sempre più situazioni critiche e sempre meglio, aumentando così i miei gradi di libertà, ovvero i momenti di buon funzionamento quotidiano. Potrei continuare ancora, ma già sono stato prolisso. Spero, tuttavia, di averle passato il senso della mia risposta ed almeno alcuni ulteriori parametri (i miei) con cui confrontarsi per poter capire se il suo attuale terapeuta sia quello che fa per lei oppure no.
Buona fortuna,
dott. Massimo Bedetti
Psicologo/Psicoterapeuta,
Costruttivista/Postrazionalista Roma