Il tremore dell’anima

La potenza della natura, che a volte si manifesta nella devastazione del terremoto, ha obbligato l’uomo a sviluppare mezzi psicologici per poterla affrontare.

22 MAR 2017 · Tempo di lettura: min.
Il tremore dell’anima

Il terremoto che ha colpito l'Italia Centrale da fine agosto ad oggi con la potente scossa di 6.5 della scala Richter mi ha portato con la memoria all'esperienza di psicologo volontario fatta nella tendopoli di Poggio di Roio in provincia dell'Aquila a settembre 2009.

All'epoca le popolazioni colpite dalla tragedia vivevano nelle tende allestite dalla Protezione civile e da altre associazioni di volontariato ormai da più di 5 mesi in una attesa estenuante di ricevere una sistemazione alloggiativa più adeguata, in previsione anche dell'autunno e del clima rigido tipico dell'Aquilano. La Psicologia dell'emergenza, per quanto concerne le tragedie dovute a calamità naturali, sostiene che a ridosso dell'evento le persone colpite mostrano un tipo di psicologia che è paragonabile, più o meno, a quello di un bambino piccolo, caratterizzato cioè da uno stato di continuo bisogno. Facciamo un passo indietro però al momento in cui la terra trema violentemente e tutto ciò che sta intorno crolla.

L'anima è più che scossa: è letteralmente aggredita e violentata, vittima inerte di un aggressore che non ha un volto ben definito perché tutti li ha: la natura. Si dice di Dio la stessa cosa: non ha volto perché tutti li ha. Psicologicamente l'uomo in quei momenti è a contatto diretto proprio con ciò che lo sovrasta e lo avvolge tutto fin da tempo immemore, dotato di quel "fascinosum tremendum" di cui parlava Jung. E, infatti, dinanzi alla potenza del terremoto la mente è sconvolta da violente tempeste di emozioni, sensazioni, pensieri che si alternano con grande rapidità tali che non esistono mezzi per tenerle a bada. Solo il sistema di fuga dettato dall'istinto di sopravvivenza è conservato ma può anche accadere che l'intensità del vissuto sia così potente da inibire anche questo e gettare nella paralisi più totale la persona. E' ciò che in termini tecnici è chiamato trauma. Per questo l'uomo che vive una simile esperienza è come un bambino piccolo che non capisce cosa accade e ha bisogno di essere protetto dal terrore che solo più tardi, quando ne avrà facoltà cognitiva, assimilerà alla paura della morte incombente.

A tale esperienza l'uomo ha tentato, nelle diverse epoche e con nomi diversi, di dare una rappresentazione avvertendo la necessità di entrare in rapporto con questa istanza sovraumana e potentissima che genera tale violenza psichica. Per questo i popoli dell'antichità, in primis Greci ed Egizi, hanno creato un pantheon di divinità assegnando a ciascuno il proprio potere e la propria funzione in seno alla natura e all'uomo e ideato dei culti per intercedere presso di loro e ingraziarseli. Non è un caso, infatti, che proprio in questi giorni una delle massime autorità israeliane abbia sostenuto pubblicamente che la scia di terremoti devastanti che affligge il Centro Italia sia l'effetto di una punizione divina a seguito della decisione del Governo italiano di negare ad Israele importanti riconoscimenti europei. Tale potenza sia in senso costruttivo che distruttivo, infatti, non può essere attribuita ad una istanza umana ma sovraumana con cui l'uomo ha il dovere di entrare in rapporto, pena la minaccia di ritorsioni e punizioni.

Così i sacerdoti che presiedevano ai culti detenevano il sapere tecnico necessario ad entrare in rapporto con le divinità misteriose che l'uomo comune ignorava. Allo stesso modo la persona colpita da terremoto prende rifugio, nel vero senso della parola, tra le braccia amorevoli del soccorritore che, nella sua prospettiva psicologica, assume la stessa valenza salvifica del sacerdote o della madre per il bambino. Dette figure svolgono quindi un'attività d'intermediazione tra la regione sovraumana del sacro a cui appartiene anche la morte e la vita ordinaria e comune. Tra le divinità greche merita un'attenzione particolare la figura di Pan da cui derivano alcune vocaboli come panico e pandemonio che occorre precisare ai fini del nostro discorso: infatti Pan viene rappresentato come mezzo uomo e mezzo capro ed era solito abitare i boschi e le campagne di cui era il Dio.

Era considerato, infatti, un dio pastore. Dal suo nome deriva il termine timor panico, poiché il dio si adirava con chi lo disturbasse emettendo urla terrificanti, provocando così una incontrollata paura, il panico, appunto. Pan era solito inseguire nei boschi le ninfe per poi possederle con violenza e vigore, lasciandole poi lì in terra. Pan è quindi una figura negativa se la accostiamo con un'ottica etica, oppure è il dio dell'istinto nudo e crudo, non mediato dalla ragione, se invece adottiamo un registro psicologico. Il nome Pan significa letteralmente "Tutto", poiché con ciò si allude proprio alla potenza dell'istinto che ci assale a tal punto da non lasciare spazio ad altro, in primis alla ragione.

È esattamente quanto accade nel trauma: senza più il filtro della ragione l'istinto si palesa in tutta la sua potenza. Oppure se volgiamo dirla in termini diversi, la coscienza è al collasso trovandosi dinanzi ad una potenza soverchiante che rischia di frantumarla: l'inconscio. Nell'iconografia cristiana poi la figura di Pan è stata utilizzata per dare rappresentazione al diavolo e alla sua manifestazione che crea scompiglio e confusione, un vero e proprio pandemonio, a testimoniare quanto odiato e temuto al tempo stesso sia l'inconscio nella sua naturalità. Ora cosa fa l'uomo dinanzi alla potenza della natura o del dio che erompono nell'anima umana come veri e propri terremoti? Rispondo prendendo ad esempio la mia esperienza nella tendopoli di Poggio di Roio: qui ho assistito a scene terribili in cui la popolazione locale, esausta per le condizioni di vita al limite della sopravvivenza, una sera ha letteralmente assediato e svuotato la cambusa e il deposito del vestiario, additando i volontari come responsabili delle proprie sofferenze e minacciando azioni violente.

Le persone hanno smesso di essere ragionevoli e si sono trasformate spontaneamente in una massa inferocita e bisognosa mossa dall'istinto e non più dalla ragione. Invece in una tendopoli non poco distante da quella, la popolazione aveva dato ampi segnali di ripresa, adornando le proprie tende con piante e fiori, organizzando gare e competizioni di vario tipo, cercando di ricreare un minimo di ordinarietà e di abitudinarietà. Ciò che colpiva in questa tendopoli era però la presenza della campana della chiesa crollata nel terremoto posta al centro del campo. Essa rappresentava tanto quei valori collettivi con cui ciascun individuo si riconosceva come parte della comunità quanto quel simbolo (religioso) che sopravvive alla tragedia del terremoto, cioè che ne ricorda la tragicità mortifera ma ne consente un superamento perché portatrice di speranza di vita e di ricostruzione.

In sintesi la campana è esattamente quel simbolo per mezzo del quale si può entrare in contatto con una dimensione tragica e potente dell'esistenza contenendo i rischi di esserne travolti: proprio come il sacerdote, lo sciamano o lo psicoanalista che, per mezzo dell'iter iniziatico a cui si sono sottoposti, sono poi in grado di accedere alle regioni misteriose della psiche e della religione. Quando invece un simbolo non viene trovato per dare voce allo spavento panico che segue alla manifestazione divina e distruttiva della natura, l'uomo è preda della sua stessa natura con forme altrettanto violente: esempi ne sono sia quanto descritto nella mia esperienza della tendopoli e sia nella psicopatologia grave.

PUBBLICITÀ

Scritto da

Dott. Gianfranco D'Ingegno

Consulta i nostri migliori professionisti specializzati in
Lascia un commento

PUBBLICITÀ

ultimi articoli su psicopatologie

PUBBLICITÀ