Litigare fa bene, quando non fa male

Conflitti: eventi complicati tra esseri umani, momenti tormentati della vita sociale e professionale, eppure risorsa "succulenta".

7 MAG 2020 · Tempo di lettura: min.
Litigare fa bene, quando non fa male

I conflitti, inevitabili momenti fisiologici tra esseri umani, possiedono il grande svantaggio di essere faticosi. Eppure, emozioni produttive aleggiano durante i conflitti, quelle che consentono di comprendere cosa l'Altro celi dentro di sé e cosa si provi in relazione all'Altro. Peccato che questo interessante flusso interiore presenti la sfacciataggine di essere emotivamente scomodo!

Sono anche dolorose le emozioni che aleggiano, sfibranti e avvilenti, ma questo avviene soprattutto quando mancano sane competenze conflittuali; è qui che litigare fa male alla relazione.

I conflitti obbligano a districarsi tra aspetti emotivi e relazionali, troppo spesso impastano le persone con il problema, eppure costituiscono una preziosa occasione per ri-tarare la relazione ed inventare soluzioni vantaggiose per tutti gli attori coinvolti.

Il conflitto è potenzialmente costruttivo: finché c'è conflitto, c'è speranza! Non è forse occasione per un'intimo dialogo con se stessi, opportunità di vedere svelati antichi nodi irrisolti che varrebbe la pena sciogliere? Non è una modalità di "incontro" con l'Altro, altro da sé, con le sue peculiarità, fragilità, asperità, difficoltà?

Spontaneità, amorevolezza, ascolto, confronto, creatività: questo serve davvero ai conflitti. Ciò che invece fa male, malissimo, è minacciare la stabilità della relazione, minacciare di allontanarsi, lasciarsi, perdersi. Stare nel conflitto significa esserci, esserci per l'Altro, comunque esserci ancora. "Perché mi sembra così irrinunciabile la mia posizione?", questa è una buona domanda, "cosa sto strenuamente difendendo di me?".

La capacità di realizzare atti creativi è il succo della vita: liberarsi da antichi copioni fallimentari, da condizionamenti alienanti, da ruoli stereotipati, danzando verso il cambiamento. Il conflitto apre a questa opportunità. Gestirlo significa generare dentro di sé l'opportunità di un nuovo sentire: stare in ascolto di ciò di cui l'Altro è portatore, dargli una possibilità, darsi una possibilità, per poi rintracciare dentro di sé nuove modalità creative atte a rivisitare la relazione.

Svalutazione, urla, sfida, silenzio, fuga, evitamento, violenza, questa è la parte rovinosa, dove assumere un "elegante" atteggiamento di risentito mutismo non è necessariamente più nobile, o meno offensivo, di uno scomposto sbottare in preda ad una crisi isterica. Da una parte vi sono comportamenti deleteri, spesso agiti con minima consapevolezza, dall'altra vi è l'incapacità di verbalizzare i sentimenti feriti, con la conseguente impossibilità di permettere all'Altro di mettersi in discussione. Spesso questo è il nodo gordiano.

A volte i conflitti si ingigantiscono, prendendo le sembianze di mostri da abbattere, perché riattivano antichi episodi e le ferite annesse. La possibilità di un confronto con le proprie tensioni transferali, proiettive e identificatorie sarebbe salvifico, ma troppo spesso non si è coscienti della questione.

Imparare a calarsi nei panni altrui, avviare un lavoro di decentramento percettivo, che favorisce la comprensione di pensieri e punti di vista altrui, sviluppa, per contro, un cambio di percezione: lasciare fluire le emozioni prima di tutto, dandosi il tempo di stare alla finestra ed aspettare che la turbolenza interna scemi. E' allora che un varco si apre e nuove percezioni prendono corpo.

Il modo in cui si è stati educati a vivere il conflitto incide fortemente anche da adulti: "Da chi si ha preso la tendenza ad arrabbiarsi con violenza o a chiudersi in se stessi? Come si comportavano i genitori in situazioni conflittuali? Cosa hanno insegnato rispetto al conflitto? Quali sono i messaggi che ronzano ancora in testa rispetto al là e allora? Cosa è rimasto oggi di quell'antico modello?".

Chiedere all'orgoglio di mollare gentilmente la sua feroce presa: è ora di dare spazio al confronto. Spiegare come vogliamo essere trattati (spiegarlo più volte, una non basta mai: l'essere umano ha bisogno di tempo per comprendere); attendere che l'Altro comprenda (concedergli un po' di tempo per attrezzarsi, perché possa negoziare con se stesso un proprio modo per interagire); verificare la presenza di una trasformazione (gioendo anche di piccolezze in attesa di maggior sostanza).

L'intransigenza non ha mai portato lontani. Il rancore uccide ogni possibilità. La tristezza chiude la visuale. L'assenza di dialogo, nell'illusione che l'Altro colga da solo il senso del proprio sentire ("perché se mi ama mi capisce...perché è intelligente quindi dovrebbe capirmi..."), è una modalità magica da lasciare agli dei, perché è una credenza miope. L'eccesso di compiacenza, in quanto eccesso, va da sé che crei indigestione.

Il conflitto nasce dallo scontro tra esperienze diverse, da differenti visioni soggettive della realtà, da diversità varie causate dall'originalità insita in ognuno di noi, dallo scontro tra mappe autobiografiche, da peculiarità culturali, bisogni ed interessi in contrasto, oppure simili (come il bisogno di auto-affermazione).

La percezione del fenomeno "conflitto" è ciò che causa più sofferenza: non serve indagare spasmodicamente le cause del conflitto, ma riflettere maledettamente a lungo sui bisogni coinvolti, sulle emozioni negate o espresse con forza, aggirando l'elemento pretestuoso. Ciò che ha senso è lavorare sull'oggettività del nodo gordiano, prendendo in carico la portata del vissuto emotivo da esso suscitato. Darsi il permesso di so-stare, insegna Daniele Novara (Cpp Piacenza), ovvero acquisire la capacità di permanenza nel conflitto, per orientarsi, per cogliere la parte sommersa del conflitto, per leggere ciò che non è immediato cogliere, per individuare i "buoni" motivi altrui, ovvero i bisogni celati. Mai lasciarsi prendere dalla "tirannia della soluzione": l'essere umano ha bisogno di un suo spazio-tempo per trovare nuovi percorsi di vita.

Troppo spesso si finisce per accontentarsi di una mediazione che lascia insoddisfatti, oppure si arriva allo scontro durissimo. Perché? Perché ci si ferma alla modalità di persuasione o all'uso di finte buone maniere con le quali si evita di affrontare il problema. Questo porta la relazione alla tomba.

Ora un punto da non scordare: il conflitto non prevede tecniche di soluzione, ma solo di lenta trasformazione, rinegoziando nel tempo un "compito sostenibile", sempre passibile di modifiche, perché ciò che oggi ci sembra impossibile domani ci potrebbe apparire accettabile. Mai scordarsi che rimaniamo bizzarri esseri umani che mutano con il mutare delle emozioni!

Luisa Ghianda

PUBBLICITÀ

Scritto da

Dott.ssa Luisa Ghianda

Laureata in Lingue e in Psicologia, ha approfondito prima la psicologia del lavoro poi la psicologia clinica. È counsellor professionista, Direttore di Psicodramma e conduttore di gruppo con Metodi Attivi, ipnologa. Si occupa di sviluppo personale, organizzativo, educativo, convinta che in ogni essere umano ci sia una grande possibilità di trasformazione.

Consulta i nostri migliori professionisti specializzati in relazioni sociali
Lascia un commento

PUBBLICITÀ

ultimi articoli su relazioni sociali

PUBBLICITÀ