"È solo un gioco": cosa rischiamo quando diciamo ad un bambino questa frase?

Sminuire l'importanza della motivazione che un bambino mette nel gioco rischia di generare effetti dannosi che si possono sviluppare insieme all'età. Articolo del Dott. Francesco Bacci

3 APR 2019 · Tempo di lettura: min.
"È solo un gioco": cosa rischiamo quando diciamo ad un bambino questa frase?

Domenica scorsa sono stato al parco con la mia famiglia, e al chiosco dei gelati mi è capitato di vedere una partita di calcio balilla tra bambini immersi in un totale stato di trance agonistica. Dopo il goal decisivo, una bambina della coppia che è uscita sconfitta è scoppiata a piangere ed è andata verso il proprio padre cercando un pò di conforto.

Il padre, prendendo la bambina in braccio, le ha detto: "È solo un gioco, non lo devi prendere così sul serio, neanche c'aveste scommesso sopra qualcosa…", e poco dopo ha cercato di dirottare la sua attenzione verso un'altalena libera.

Queste parole hanno fatto da specchio ad alcuni vissuti della mia infanzia e mi hanno attivato una serie di immagini e di ricordi: quante volte avremo sentito pronunciare una frase del genere da bambini?

Oggi ritengo lecito mettere in discussione il loro valore educativo partendo dall'intenzione con cui vengono pronunciate. Se infatti, trovandoci in una situazione simile, dovessimo sentire l'istinto di dire le stessi frasi di quel padre, avremmo prima di tutto il compito d'interrogarci se la nostra reale intenzione è di aiutare il bambino ad affrontare un dolore, ascoltandolo ed istruendolo, oppure quella di distrarlo per placare delle lamentele che non abbiamo voglia o non ci sentiamo in grado d'accogliere in quel momento. Cerchiamo di essere sinceri: è possibile a volte essere guidati dal secondo di questi propositi.

Del resto viviamo in una società che punta particolarmente sulla distrazione: dai programmi poco impegnativi alla televisione per allentare il peso di una giornata di lavoro, allo smartphone consultato in maniera ossessivo-compulsiva per riempire alcuni momenti vuoti che fatichiamo sempre di più a tollerare e che in realtà dovrebbero servire per ascoltarci. Questa tendenza alla distrazione rischia di portare ad un distaccamento dal momento presente, facendo confondere il mancato ascolto dei problemi con il loro superamento. Tali problemi rischiano quindi di stabilizzarsi nel nostro inconscio generando una sorta di ansia non ben decifrabile dalla nostra razionalità.

Questa educazione alla dissociazione trova il suo fondamento in età evolutiva attraverso le classiche frasi del tipo: "guarda là…" nel tentativo di distrarre un bambino che piange. È facile intuire come le frasi in questione, oltre a favorire lo sviluppo di problemi dissociativi, trasmettano al bambino un senso di mancanza d'ascolto ed un'angoscia causata dalla percezione di disinteresse per il proprio dolore da parte del genitore. Per non parlare di come tale "sordità empatica" potrà essere interiorizzata e manifestarsi dopo lo sviluppo con frasi del genere "vabbè dai…", quando qualcuno sta condividendo i propri problemi. Inoltre dire "è solo un gioco" rischia di sminuire pericolosamente l'importanza che questo gioca (verbo non casuale) nella crescita di un individuo.

La carica agonistica che un bambino investe nel gioco rappresenta la capacità di cogliere il "momento presente" descritto da Daniel Stern e di viverlo al massimo delle proprie capacità.

Essa si svilupperà come la motivazione che l'individuo metterà nelle varie sfide quotidiane, nello studio in età evolutiva e sul lavoro in età adulta.

Già nel '700, il filosofo tedesco Friedrich Schiller definiva il gioco come uno strumento che ci permette di conciliare il razionale con l'irrazionale. Oggi possiamo dire che la parte razionale riguarda il sapere come tutta la fase preparativa al gioco, la conoscenza teorica delle regole e delle tecniche e la preparazione pratica. La parte irrazionale riguarda la capacità di lasciarsi andare, di saper entrare in relazione con l'ambiente circostante, cogliere cosa ci trasmette ed esternare emozioni, provando piacere nel farlo.

Nella psicologia positiva, Mihály Csíkszentmihályi racchiude perfettamente questo significato nella parola flow: la capacità di saper fluire. La parte irrazionale è quella che ci permette di divertirci, di "gustare" quello che facciamo. Un disinvestimento sull'importanza del gioco rischia quindi di tradursi in un mancato coinvolgimento emotivo nelle cose che viviamo. Il divertimento, il lasciarsi andare non sono assolutamente da confondersi con la mancanza di serietà! Il divertimento è una cosa seria! Non a caso, nella lingua inglese, la parola "play" assume un significato di gioco in una modalità molto versatile che rende esaustivamente l'idea di questo concetto. Il termine play può significare "fenomeni seri" come suonare, recitare ed avviare, lasciare andare, una riproduzione audio/video.

Il gioco quindi, nella fase d'attuazione, non prevede un processo cognitivo ma comunque permette la possibilità di starci insieme attraverso la preparazione. Quest'incontro favorisce quella che nella Grecia antica veniva definita dai Sofisti come Kalocagathia: la conciliazione tra salute fisica, morale e spirituale. Quindi, la frase "è solo un gioco", se inizialmente può dare un apparente sollievo sia ai genitori che ai figli, nel lungo termine può generare degli effetti dannosi. Nell'esempio citato all'inizio dell'articolo vi è poi un'aggravante costituita dallo sminuire l'importanza della partita a biliardino in quanto non vi era stata una scommessa. Oltre a favorire lo sviluppo di un atteggiamento veniale, questa affermazione rischia di guidare il bambino a cercare, da adulto, un'approvazione genitoriale attraverso il gioco d'azzardo, rischiando gli effetti catastrofici legati a questa categoria.

È come se il fluire di cui abbiamo parlato, il rilascio di andrenalina al raggiungimento di un obiettivo o di una vittoria fossero impossibili senza un compenso economico. Anche questa affermazione può quindi portare all'incapacità di provare piacere verso gli aspetti più sostanziali delle azioni che si intraprendono. Se ci dovessimo trovare quindi a gestire un bisogno di rassicurazione di un bambino in seguito ad una sconfitta, le tappe da me suggerite sono le seguenti:

  • accogliere il suo stato d'animo e rimandargli che lo stiamo ascoltando. Si possono utilizzare frasi come "so come ti puoi sentire…" oppure "tra un pò ti passerà";
  • riconoscere comunque il suo impegno, rassicurandolo anche sulla nostra presenza, ad esempio: "ho visto che hai dato il meglio di te e questo è ciò che conta";
  • insegnargli ad accettare la sconfitta e a vedere anche le risorse che essa porta nella formazione del carattere, sottolineando anche l'importanza nel mantenere la lealtà nel gioco;
  • proporre la possibilità di allenarsi insieme a lui, se lo desidera, nel tentativo di migliorare le proprie abilità
  • ricordargli che si è sempre in tempo per vincere una prossima volta!

Torniamo alla teoria riguardante la motivazione nell'attività ludica infantile ed il rispecchiarsi di questa nell'investimento delle attività da adolescente o adulto. Questa potrebbe essere messa in discussione da un fenomeno piuttosto frequente: quello di ragazzi che si danno da fare molto nelle attività sportive e poco in quelle scolastiche. La scarsa propensione allo studio in questi casi può però essere un'espressione di un mancato sviluppo nell'elaborazione della sconfitta. Questi ragazzi infatti possono essere reduci da scarsi risultati scolastici cui è seguita una frustrazione intollerabile.

L'incapacità di tollerare questi fallimenti può averli portati a non riconoscere più l'importanza della scuola e ad investire solamente nelle attività che già gli riescono bene e che per loro rappresentano una sorta di palcoscenico sociale, nell'illusione che possano diventare sostitutive. In sostanza hanno imparato a stare con la squadra vincente.

A tal proposito mi vengono in mente quelle situazioni in cui, giocando a calcetto, alcuni ragazzi che non riescono a tollerare il fatto che stiano perdendo, propongono di passare all'altra squadra. Il gioco diventa quindi anche strumento che ci permette d'interiorizzare regole, civiltà, insegnamenti di vita e a formare il nostro carattere. Concludendo possiamo dire che quando diciamo "è solo un gioco" ad un bambino rischiamo di favorire una tendenza alla dissociazione, una mancanza d'ascolto, un disinvestimento nelle attività e denigriamo uno strumento altamente educativo.

Prima di terminare voglio fare un particolare ringraziamento al padre citato per avermi dato lo spunto su questo articolo e spero non ne rimanga amareggiato, veramente a pochi non è mai capitato di pronunciare questa frase.

Articolo del dottor Francesco Bacci, iscritto all'Albo degli Psicologi dell'Emilia Romagna

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Scritto da

Dott. Francesco Bacci

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Commenti 1
  • Ernestina Loconte

    Formativo! Grazie Infinite!

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