Trasferimento lavorativo: avremo fatto bene?
Dopo alcuni anni in un'azienda di una grande città, ho fatto richiesta di cambiare sede lavorativa. La scelta è stata dettata da diversi motivi: la città, col tempo, è diventata sempre più invivibile, con servizi carenti, sempre più caotica e disorganizzata; le spese, troppo alte, con qualsiasi imprevisto di salute o tecnico, che ha sempre implicato degli esborsi sanguinosi, dai quali alla fine del mese era difficile riprendersi; la nascita di un figlio, dopo alcuni anni di matrimonio: ancora più spese, a volte insostenibili, l’impossibilità di fare affidamento su qualcuno, in caso di urgenze, in quanto entrambi lavoratori e praticamente soli.
Da qualche mese il cambio si è concretizzato sia per me che per mia moglie. Siamo tornati vicini alle nostre zone d’origine, con annessi tutti i vantaggi che avevamo valutato prima di decidere: migliore qualità della vita, possibilità di poter contare su un aiuto concreto per il piccolo e per altre situazioni logistiche e più banali. Purtroppo, però, non tutto si è rivelato migliore, fattore che pure avevamo immaginato: il contesto lavorativo provinciale, tranquillo fino a un certo punto, ma con logiche ristrettissime e una visione d’insieme molto limitata; le ingerenze di familiari e conoscenti che, giocoforza, influenzano il tuo approccio alla quotidianità. In ultimo, ma forse primo come fattore determinante, l’impossibilità di trovare una sistemazione stabile: nella città di provenienza, avevamo infatti comprato casa facendo dei sacrifici enormi e investendo tutte le nostre risorse. Anche questo, nel trasferirsi, era stato un elemento ponderato con grande attenzione: vendita della casa, praticamente nuova e in una zona appetibile per poterne comprare un’altra, a prezzi notoriamente inferiori, una volta trasferiti. Messa in vendita da un po' di mesi, ma gli eventuali acquirenti, tra crisi dell’immobiliare e pandemia (spesso, una scusa) rilanciano al ribasso, non permettendoci nemmeno di rientrare nelle spese. E dire che non l’abbiamo comprata a un prezzo esoso, né vorremmo venderla a un prezzo fuori mercato.
Come aggravante, il contesto lavorativo si è rivelato peggio di come avremmo immaginato, forse anche in luce delle esperienze avute: vecchio (anche anagraficamente), fossilizzato nel suo localismo, scarsamente stimolante, quando nelle sedi precedenti, chi più chi meno, avevamo legato con molti colleghi, coltivando rapporti che andavano anche al di fuori dell’ambito professionale. Insomma, lavorativamente ci siamo impoveriti e la questione della casa non ci fa affatto dormire sonni tranquilli, perché non sappiamo quanto ancora aspettare, né vorremmo svendere ciò che abbiamo conquistato con sacrificio.
Da parte mia, non nascondo di aver cominciato a pensare di aver fatto un grosso errore, nonostante gli indubbi vantaggi che pur abbiamo ottenuto: più tempo per noi e per tutta la famiglia, meno stress e maggiori attenzioni per il piccolo… Sto anche pensando di tornare indietro, visto che delle possibilità si potrebbero presentare nel medio periodo. Mia moglie, di converso, sembra più razionale e pensa che sia meglio valutare la situazione con pazienza e senza isterismi. A me, tuttavia, comincia a logorare l’attesa nel trovare una sistemazione e la frustrazione di trovarsi in un posto di lavoro che non valorizza minimamente entrambi. Si dovrebbe lavorare in una grande città e vivere in provincia…