Sogni ed incompatibilità con la realtà (me e mio fratello autistico)
Vi chiedo scusa in anticipo per la lunghissima lettera, ma non ho voluto tralasciare o tagliare nulla al mio racconto.
Ho ventuno anni e il mio sogno era di diventare neuropsichiatra per poter finalmente aiutare mio fratello di otto anni più grande di me autistico. Lui non sa comunicare verbalmente, non è autosufficiente e comunica tramite gesti ed espressioni, trapelando le sue emozioni, frustrazioni e disagi, anche se molte volte non sa trattenersi. Ride a squarciagola, correndo e saltando su e giù per casa quando è euforico; grida, cerca abbracci e baci quando vuole essere al centro dell’attenzione; alcune volte invece si isola per giornate intere senza parlare o avere contatti con nessuno, oppure non dorme la notte quando sa che qualche membro della famiglia parte per un viaggio. Quando è frustrato inizia ad essere aggressivo picchiando altre persone o sé stesso. Ho passato la mia vita a vedere la sua persona distruggersi, destabilizzarsi tramite psicofarmaci dovevano “contenerlo”.
Ho sempre promesso a me stessa e a mio fratello di diventare medico da quando avevo cinque anni. Inizialmente ero convinta di dover fare io questo passo visto che il mondo intorno a me non sembrava capirlo o interessarsi a lui fino in fondo, ma con il tempo si sono aggiunti altre motivazioni alla mia vocazione: interesse per la medicina e le malattie, il desiderio di lavorare vivendo con gioia la soddisfazione di aver contribuito ogni giorno al benessere del prossimo e il fatto che le altre persone mi dicevano sempre che ero empatica e sensibile abbastanza da comprendere le sofferenze altrui e questo lato di me mi ha sempre spinta a mettermi in prima linea per gli altri, sacrificando alcune volte anche la mia felicità personale. Due anni fa ho provato il test di Medicina e non sono passata. Mi è crollato il mondo. In quel periodo, e anche prima, ho sacrificato i “miei desideri personali” (tutto ciò che non era relativo al mio obiettivo come potenziali hobby o interessi), la scuola (il test quell'anno era in aprile, prima della maturità), le mie amicizie (ho perso un’amica in quel periodo di anoressia e a causa di questo ho perso quelle poche amicizie che avevo), mi sono isolata da tutto e da tutti pur di perseguire il mio obiettivo. Ormai quell'obiettivo era diventato il mio unico mondo e lo avevo perso. L’anno dopo ho riprovato il test, anche se con poca convinzione, e l'ho passato, ma sono finta subito ad Odontoiatria. Non ho aspettato che mi ripescassero a Medicina perché con il mio punteggio sarei dovuta andarmene via di casa e la mia famiglia non me lo avrebbe permesso, non tanto per il gravo economico (fin dal liceo e anche in università ho sempre usufruito di borse di studio, non solo per non essere di peso alla mia famiglia, ma era anche un mio modo per essere indipendente ed autonomia, componente di cui sento fortemente la mancanza nella mia famiglia, oltre al dialogo e la comprensione), ma per il semplice fatto che non volevano che mi staccassi definitivamente dalla mia famiglia e ad incominciare già a vivere la mia vita da sola a 20 anni. I miei genitori sono già ansiosi quando esco da sola di casa alla sera con i miei amici per il timore che mi accada qualcosa in quanto donna (e per questo rimango prevalentemente chiusa in casa se non per andare in università), figuriamoci vivere da sola lontana dalla loro protezione! Vivere da sola, senza alcun appoggio, lontana da casa, terrorizza di più ai miei genitori che alla sottoscritta, ma in quel momento ero davvero disposta ad abbandonare tutto e andare fin in capo al mondo pur di raggiungere i miei obiettivi, ma a quel tempo frequentavo Farmacia. Mi sentivo a disagio, non ero riuscita a legarmi a nessuno, l’ambiente era pesante e mi stavo pure isolando in università. Dopo aver passato un anno senza sosta a studiare prima per il test, poi per la maturità ed infine per il test di ammissione per Farmacia, provavo repulsione ad aprire i libri. Non riuscivo a concentrarmi. Per me restare in quella facoltà era un incubo. Oltre a ciò non avendo alcun piano B, ho scelto Farmacia su consiglio dei miei genitori. L’anno in cui sono passata ad Odontoiatria era l’ultimo anno per cui la mia famiglia mi permetteva di cambiare corso di laurea, e la mia famiglia mi ha minacciata di farmi restare a Farmacia e di non cambiare più se finivo in una sede lontana da casa di Medicina, quindi per evitare di restare a Farmacia, sono passata ad Odontoiatria. Dopo l’entusiasmo iniziale riguardo il corso nuovo (ambiente familiare, professori competenti e attenti, interesse per le materie affrontate, agli antipodi di quello che era Farmacia) ho incominciato a provare un senso di inquietudine. Anche se mi sono decisa di perseguire il mio percorso, certe volte mi sento “fuori posto”. Tutti i miei compagni che hanno messo Odontoiatria come prima scelta erano là per vocazione (figli di dentisti, familiarità con l’ambiente) e danno il massimo in tutto ciò che fanno, dando anche risultati brillanti. Io no, alcune volte mi sento come se fossi “l’elemento anomalo” del gruppo. Se mi fossi trovata in un’altra circostanza non avrei scelto questo percorso, per quanto mi possa piacere. Studio con piacere le materie proposte, ma certe volte ho la sensazione di non voler impegnarmi al massimo, di non voler puntare volontariamente in alto, di non mirare alla perfezione o ai 30 e lode dei miei compagni. A volte ho la sensazione che mi stia forzando di accontentare me stessa e di essere felice di quello che ho, cercando di cancellare le mie aspirazioni iniziali. Se penso ad esse cerco di ripiegarle nell’ambito in cui mi trovo adesso, come sta adesso facendo la mia famiglia: “Sarai medico, non hai motivo per pensare a Medicina” “Hai passato il test” “Puoi aiutare tuo fratello senza diventare psichiatra” "Hai scelto un bel corso di laurea!". Prima che passassi il test, nessuno della mia famiglia era davvero convinto che lo avrei passato e che io, spinta dalla rassegnazione avrei continuato con Farmacia. L’anno in cui ho provato il test per la prima volta, tutti mi hanno sopravvalutata, come tutto ciò che riguardavano le mie capacità e la scuola. “Sei brava! Ce farai sicuramente, come in tutte le cose che fai!”. Ero la ragazza diligente, intelligente, brava a scuola, obbediente che non creava mai problemi in famiglia. I miei genitori fuori casa si vantano di me con orgoglio per essere la figlia che loro hanno sempre voluto. L’anno dopo era l’opposto: nessuno della mia famiglia credeva in me, non si aspettavano quasi nulla da me e riprovare il test secondo loro era il colpo di grazia per poter finalmente ritornare nel mondo reale, non fatto di sogni, ambizioni per il proprio futuro, desiderio di cambiare il mondo o semplicemente di essere liberi di seguire i propri desideri personali. Anche se onestamente penso che la “batosta” del primo tentativo per me sia stato il colpo di grazia di un lungo processo di logoramento e annientamento del mio ego che ho iniziato anni fa, quando ho cercato più volte di rinunciare al mio “io” per soddisfare le aspettative degli altri, soprattutto della mia famiglia. Ad un certo punto della mia vita ho pensato che i miei desideri non contavano nulla: o dovevo essere quello che loro volevano o non valevo nulla. Ora faccio fatica a pensare ad un presente o un futuro in cui posso essere pienamente felice, libera e realizzata. Anzi penso di non esserne in grado, se avessi i mezzi per farlo. Nonostante l’atteggiamento della mia famiglia (che non biasimo del tutto, dopotutto credevo molto meno in me stessa di quanto loro credano in me), ho passato il test ma per timore di finire controvoglia e di essere frustrata a vita in una professione che detestavo, sono dovuta rifugiare ad Odontoiatria.
Come vi ho detto prima, stavo bene ad Odontoiatria, mi piacevano le materie, l’ambiente e la classe, ma ogni volta che pensavo a mio fratello, o sussultavano i miei desideri antecedenti, quel momento di tranquillità veniva scombussolato.
Ero sempre più cosciente che man mano che passavano gli anni la mia famiglia si rassegnava sempre di più alla sua condizione e anziché aiutarlo a sbloccarsi gradualmente, contribuivano alla sua solitudine. Non si sforzano più dialogare con lui cercando di capirlo, non lo portano fuori tranne che al centro diurno e ormai la sua terapia si basa solo su psicofarmaci con tutto ciò che portava tra effetti sulla sua personalità e persona (da quando ha compiuto 18 anni mio fratello non è più considerato autistico ma uno psicotico affetto da grave ritardo mentale da tenere sotto controllo con psicofarmaci e non accompagnato da una riabilitazione). Ogni volta che propongo una terapia che non sia farmacologico, di portarlo da qualche specialista, evento, uscita che possa dare aiuto e supporto a lui e alla mia famiglia, o anche convincere la mia famiglia di “entrare” nel suo mondo con testimonianze di altre persone o articoli riguardanti l’autismo su internet, arrivo sempre ad un punto morto. Penso che inizialmente facciano finta di essere interessati per poi abbandonare le mie proposte e progetti, con scuse, impedimenti, oppure con il silenzio. Altre volte, soprattutto mio padre, non mostrano alcun interesse in partenza. Ogni volta che lo vedo mi sento in colpa per aver abbandonato i miei progetti. Cerco di giustificare a me stessa le mie scelte, come il fatto di volermi staccare dalla mia famiglia il prima possibile, che posso aiutarlo senza avere una laurea in Medicina, ma di fronte ad ogni mia impotenza arrivo alla conclusione di essere stata una vigliacca, come altre volte, perché ho sacrificato per l'ennesima volta per la mia felicità e realizzazione personale in cambio di “una pace provvisoria” in famiglia, di aver fallito nel mio compito, di non aver mantenuto la mia promessa e di essermi in realtà rassegnata, come i miei genitori, al suo problema, o peggio, facendo così di averlo abbandonato definitivamente.