27 GIU 2016
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Buongiorno Dida, apprezzo la sua onestà intellettuale quando dice di essere una paziente ed un'amante della psicologia "parzialmente informata". Infatti, da come espone il problema emergono lacune (che, comunque,lei non sarebbe tenuta a colmare) evidenti rispetto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale. Per questo, tuttavia, la inviterei a non formulare giudizi su un qualcosa che si conosce solo parzialmente o per sentito dire (come, ad es., cose del tipo: la TCC si occupa solo dei sintomi, non è una terapia del profondo, è una psicoterapia mentre la psicoanalisi è qualcos'altro, etc. etc.). Qualora fosse incuriosita, le basterebbe andare su Google e fare una brevissima ricerca su quante teorie con epistemologie differenti ci sono sotto il grande cappello di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. Le polemiche tra teorie sono facili da cominciare ma hanno stufato (visto che sono decenni e decenni che, purtroppo, vanno avanti). Ma sono sicuro anche che ai colleghi (come agli interessati di psicologia in genere) molto informati ed aggiornati, non passa neanche più per la testa fare differenza tra psicoterapia del sintomo, del profondo, tra psicoterapia e psicoanalisi, etc. etc. Fortunatamente, la discussione teorica ed epistemica è andata oltre queste discussioni un pò da cortile (nel senso che ognuno difende a denti stretti il proprio orticello, giudicando la pagliuzza nell'occhio dell' "avversario" piuttosto che avere un atteggiamento critico e riflessivo sul tronco presente nel proprio occhio...), andando, ad es., ad integrare posizioni neurobiologiche, fisico-quantistiche, etc. Prendendo spunti, ad es., da una scoperta clinica di un modello molto diverso, avendo, insomma, un atteggiamento con la mente aperta, visto che non viviamo in un UNIVERSUM (realtà oggettiva con cui tutti si possono confrontare), ma in MULTIVERSA (H. Maturana, ovvero una realtà oggettiva inaccessibile, dove ognuno crea il proprio mondo ma, essendo comunque, esseri sociali, dobbiamo accordarci per vivere insieme nel quotidiano), ovvero: se la realtà oggettiva non è accessibile, come fa una psicoterapia a dire che una modalità esistenziale è più giusta di un'altra? Qual'è il mio riferimento, visto che io stesso sono, talvolta sì e talvolta no, un suo riferimento. Chi o cosa è il criterio dal quale partire per "oggettivizzare" una differenza ed, in seguito, etichettarla come patologica, non funzionale, etc.? Chi dice che il mio modo di vedere il mondo è migliore della persona sofferente di fronte a me? La sua sofferenza? Se si prende questo come criterio, apriti cielo: cosa intende, tale persona, per sofferenza?, Quali significati, prima emotivi e poi cognitivi (visto che è nato prima il cervello rettiliano e poi la neocorteccia), sta attribuendo a quella sofferenza? Lei se la sta raccontando come sofferenza, ma è tale per lei? Oppure non ce la fa (sempre emotivamente) ad esplicitarsi che, ad es., sta provando gioia e felicità in un contesto che l'esterno potrebbe giudicare negativamente e, dunque, visto che ciò non è possibile, allora si deve provare sofferenza ed aderire, così, al gruppo significativo cui si vuole appartenere, dal quale non si vuole essere esclusi, dal quale si vuole essere amati, etc. etc. (naturalm., questo è solo un esempio)? Come vede, non è più interessante quale terapia sia migliore, ma come fare a comprendere chi sta male di fronte a noi avendo esperienze, emozioni, linguaggi, significati, valori, etc., completamente differenti. In questo caso, quindi, l'unico criterio da seguire è: che effetto fa essere lei? E da qui si parte...Almeno io seguo tale linea...da terapeuta Cognitivo-Comportamentale...
Buona fortuna
dott. Massimo Bedetti
Psicologo/Psicoterapeuta
Costruttivista-Postrazionalista Roma