Non so che far dellla mia vita
Non mi è mai piaciuto parlare di me, assolutamente, ne scrivo ora, per gioco, di getto, per vedere che ne vien fuori e se qualcuno risponderà qualcosa.
Parto dall’inizio.
Sono sempre stata una bambina tranquilla, timidissima e molto introversa. Ai tempi delle scuole elementari ero molto poco “sociale”: tra le ragazze andava di moda far balletti e i ragazzi giocavano sempre a pallone: entrambe le attività non mi interessavano, per cui la maggior parte del tempo preferivo rimanere da sola e non mi dispiaceva.
Leggevo molto, giocavo ai videogiochi e tutte le sere parlavo con un amico immaginario che io chiamavo “capo”. Somigliava ad un personaggio dei cartoni, un cane in giacca e cravatta dietro ad una scrivania: chiudevo gli occhi e lo vedono nella mia testa. Mi rallegrava, era sempre molto espressivo e mi dava consigli.
Finite le scuole elementari iniziò l’incubo: le scuole medie.
Tre anni di costante bullismo e derisioni, da parte di tutti, anche dei professori: ero lo zimbello. Alle provocazioni ero passiva e semplicemente non reagivo. Accanto al bullismo c’erano le “molestie” da parte di un mio compagno di classe: continui palpeggiamenti e strusciamenti (qualsiasi pretesto era buono). Sentivo qualcosa di il “duro” là sotto ogni volta che mi si attaccava addosso, rabbrividivo e mi sentivo umiliata. Avevo terrore di rimanere da sola con lui per paura che potesse andare oltre.
Pensavo di essere io quella sbagliata e i miei genitori rafforzavano questa convinzione rimproverandomi il fatto di non riuscire ad essere come le altre ragazze. Odiavo i miei genitori. Arrivai a non sopportare persino il respiro pesante di mio padre, pensavo lo facesse di proposito a respirare a quel modo fastidioso.
Ci furono poi piccoli episodi molto sgradevoli che non sto qui a raccontare, per citarne uno, c’era il professore di chitarra che menava, schiaffi e pizzicotti, forti. Le lezioni con lui erano pomeridiane ed individuali: dall’auletta dove insegnava non un alunno che ne uscisse non in lacrime. Ricordo che ne ero terrorizzata e non lo guardavo mai in faccia, ero ipnotizzata dal rigonfiamento dei suoi pantaloni e tutto il tempo gli fissavo il “pacco”.
Tutte le notti piangevo nel letto e pensavo costantemente al suicidio.
Ero comunque molto brava nello studio, e dopo le scuole medie i miei mi iscrissero al liceo.
Entrai nella nuova scuola con l’autostima inesistente, complessi di inferiorità e timidezza patologica: non riuscivo a guardar una persona negli occhi senza arrossire in modo drammatico.
Ero “pronta ad incassare” anche da quel nuovo ambiente che pensavo non potesse certo esser diverso da quell’incubo che avevo appena lasciato. E invece…
Capitai in una classe modello, erano tutti piccoli geni là dentro, anche umanamente magnifici. Capii che il mondo era diverso da quello che pensavo che fosse.
Non riuscii comunque a superare i miei complessi e godermi “amicizie e spensieratezza” (che di fatto non avevo) e passai quegli anni come “un fantasma”: mentre gli altri si divertivano e facevano esperienze, io mi nascondevo ed evitavo l’evitabile.
Soffrivo di anoressia, ipocondria e tutte le sere scrivevo su un forum di “fobia sociale”.
Gli anni universitari furono gli anni “della rinascita”, decisi che era l’ora di reagire e feci un lavoro enorme su me stessa per “uscire dalla fossa” e ci riuscii. Venne fuori un’altra me: diventai estroversa, solare, ironica, attiva, intraprendente, tutto il contrario di quello che ero stata. Ero avida di tutto, ero avida di tutta la vita di cui mi ero privata fino ad allora. Cominciai ad andare in montagna, a fare sport, a partecipare ai gruppi studenteschi, qualsiasi attività mi interessava e la provavo, ero la prima a farmi avanti e a coinvolgere gli altri. Stavo bene, veramente bene.
I ragazzi cominciarono a guardarmi, alcuni si innamorarono di me. Io rifuggivo da queste cose”: ne aveva paura, non riuscivo a lasciarmi andare anche se avevo simpatia per alcuni. Avrei voluto… ma c’era un blocco che mi impediva di andar oltre: la verità era che ero terrorizzata dal dover far sesso.
Finii l’università in bellezza, i miei professori erano talmente entusiasti di me che mi proposero di iniziare subito un dottorato a Boston. Rifiutai, credo anche per la paura di non essere all’altezza e deluderli: secondo il mio punto di vista riponevano troppa fiducia in me.
Quindi:
per quanto riguarda la sfera amorosa arrivai a 28 anni vergine. Il giorno del mio 28esimo compleanno realizzai di star invecchiando e decisi di forzarmi a provare il sesso. Ero anche alla ricerca di nuovi “stimoli” dopo aver concluso gli studi ed essere rimasta inoccupata.
L’idea di chiedere del sesso ai miei amici mi faceva ribrezzo, così scrissi ad un ragazzo mezzo sconosciuto che di tanto in tanto sentivo sui social: 11 anni più grande di me, un omone grosso, mi ispirava fiducia, lo vedevo paterno e rassicurante.
Gli chiesi di sverginarmi, gli dissi che mi fidavo di lui, di esser delicato e non farmi male. Alla fine la cosa fu organizzata e ci incontrammo in albergo.
La storia non morì lì e in seguito continuammo a vederci, solo per far sesso.
Se le prime volte il sesso non mi piaceva, poi cominciò a piacermi: lo vedo come uno sfogo, un modo per godersi il momento senza preoccuparsi di altro, per liberare la mente e non pensare.
In generale non mi è mai successo di innamorarmi e comunque credo che non sarei in grado di sostenere un rapporto vero, un “vero fidanzamento”, perché non mi sento degna di essere amata.
Dal punto di vista lavorativo ho avuto un paio esperienze, assolutamente negative, non sto qui a raccontar i dettagli.
Il fatto è questo: il mondo che vivo mi fa schifo, ero una disadattata da ragazza e lo sono tuttora, in modo irrecuperabile. Non sopporto praticamente più nulla. Ho perso la fiducia nelle persone (tutte), odio la superficialità dilagante, i discorsi di circostanza, le frivolezze, le falsità, le ostentazioni, le mode, gli sprechi.
Durante l’università mi prodigavo per la “causa ecologica”, la sostenibilità ambientale e utopie simili, ho fatto molto volontariato in giro per l’Europa ma a posteriori mi son resa conto di essere patetica, un’illusa.
Il mondo che vedo ogni giorno è irrecuperabile dal mio punto di vista. Tutto è eccessivamente snaturato, inquinato, gli ambienti sono sovrastrutture omologate, senza identità, e così anche le persone. Intorno a me mi pare tutto un vivere passivamente senza nessun vero interesse, a meno che non si tratti di gossip, della nuova borsa di Gucci o dell’organizzare la prossima vacanza in un villaggio turistico.
Vedo il consumismo come il male assoluto, la TV e le pubblicità mi indispongono oltremodo con tutte quelle sciocchezze… e ancor di più mi indispone la gente che abbocca. Mi guardo intorno e non vedo alcun valore, solo menefreghismo e diffidenza.
Ho cercato di creare almeno un piccolo spazio dove poter stare bene io, ma mi è proprio impossibile riuscirci. Per vivere si ha bisogno in primis di soldi e poi di relazioni.
Per quanto riguarda le seconde, praticamente non ho amici, o almeno quel paio di persone che considero amiche son fisicamente lontane da me e anche loro molto confuse e incasinate.
Le persone che frequento non le considero amiche e quasi ogni volta che ci esco insieme me ne pento: mi rendo conto di perdere tempo, non mi danno niente e io non ho da dar loro niente di loro interesse.
Son fuori moda e non mi interessa far l’”oca” coi ragazzi e men che meno voglio ammorbare il prossimo con discorsi pesanti o intellettualismi. Il mio modo di rapportarmi con gli altri, in ambienti informali, così, è o lo stare zitta o il “far la pagliaccia”.
Mi fingo ottusa, faccio finta di non capire quel che mi si dice o di travisare i discorsi generando “misunderstanding”, e faccio ridere chi mi sta intorno.
Mi son chiesta il perché mi comporti a questo modo: credo di non riuscire a fare la seria perché l’esser “seri” in un mondo che per me non ha senso è fingere, e una presa in giro soprattutto verso me stessa. Se il mondo non ha un senso mi comporto di conseguenza: da persona senza senso.
Per quanto riguarda i soldi, il “guadagnarsi di che vivere”: le esperienze lavorative son state un disastro. Il lavoro in azienda è stato assolutamente annichilente, senza scopo alcuno. Mi son sentita svuotata, depressa, oberata dal nulla che mi ha inglobata: niente più stimoli intellettuali, lavoro monotono, ripetitivo, protratto tutto il giorno, anche nei weekend, per di più un lavoro contro la mia etica e i miei principi; ambiente competitivo, stressante, colleghi pettegoli, frivoli, invidiosi e maligni.
Poi, quasi più niente tempo “libero” da dedicare a me stessa, alle letture, allo studio, allo sport, alle esperienze che possono “dar qualcosa”, far maturare consapevolezza ed evolvere la persona.
Ero dunque diventata una zombie (scrivo ero perchè non lavoro più), e anzi più zombie della maggior parte della gente che prima consideravo zombie.
Annullata.
A volte capitava che l’apatia mi lasciasse e in quei momenti avrei voluto far qualcosa ma poi capivo di essere inerme e mi prendeva una malinconia pazzesca della me stessa che ero stata, e piangevo.
Vorrei trovare uno scopo, un lavoro a cui dedicarmi, anima e corpo, che mi appassioni, a cui darmi completamente per arrivare a dei risultati, un progetto che fosse veramente utile, per cui valesse la pena lavorare.
Ho pensato seriamente di sfruttare il fatto di essere una donna e prostituirmi, e poi viaggiare un po’ in giro per cercare un posto dove stare bene, cercare autenticità, gente genuina, anime non corrotte.
Purtroppo la mia ipocondria e la paura di prendere malattie sessuali mi frena dal far la prostituta.
Mi sento completamente bloccata e penso che se domani mattina non mi svegliassi sarebbe una buona cosa.