mi sento soffocata dalla mia famiglia ma questo pensiero mi crea senso di colpa
Buonasera,
Mi chiamo Alessandra, ho 33 anni. Dopo gli anni dell'università e varie esperienze di lavoro all'estero e lontane dalla famiglia, sono rientrata a casa con i miei genitori per ragioni ancora lavorative - un buon lavoro ma più vicino a casa. Credevo sarebbe stato per poco tempo, ma ormai sono 4 anni che sono tornata a vivere con i miei genitori; ogni giorno diventa sempre più faticoso, per varie ragioni: non mi sento riconosciuta come persona adulta, perché di fatto mi trattano ancora come una bambina (es: mio padre ha appena acquistato un'auto nuova e dopo avermi chiesto se la volevo provare, si è impuntato per farmi vedere come dovevo fare per avviare il motore, cambiare marcia e dirmi a che velocità avrei dovuto guidare; la domenica mattina se mi attardo a letto dopo le 9 entra nella mia stanza per vedere se sto dormendo); devo sottostare ad abitudini e orari che non mi appartengono più e che scombinano o il più delle volte fanno saltare i miei impegni, e quando decido di dare priorità a questi ultimi poi mi faccio assalire dai sensi di colpa perché ad esempio so che mia madre ha preparato la cena anche per me e se io non arrivo in tempo ci resterà male. Ancora, ho smesso di esprimere quello che penso: semplicemente, dico sempre di sì in modo che sembra tutto vada bene, perché alla fine mi pare di dovermi vergognare di avere da ridire nei confronti di chi mi prepara la cena e mi aiuta se ho bisogno. Ho pensato che la soluzione fosse cercare casa per conto mio, cosa che pensavo avrei fatto entro i 30anni ma che con enorme frustrazione (io lo considero il fallimento della mia vita), non ho realizzato. Ogni volta che se parla, finisce in litigio con i miei, soprattutto mio padre, che asserisce che io non possa fare quello che voglio solo perché a me viene in mente di voler essere a tutti i costi indipendente, come chi non ha nessuno. Conseguenza: tormento di senso di colpa e nulla di fatto. Ogni scelta che mi porta fuori provincia/fuori casa è criticata e in pratica distrutta, fino a che il logorio non mi convince a lasciare perdere, come qualosa che "vorrei, ma non si può, per non fare torto ai miei che fanno tanto per me"). In tutto ciò ho l'esempio di una sorella maggiore che mi è sempre stata portata come esempio da seguire e di cui per volere dei miei genitori ho seguito le orme fino all'università), che ha iniziato a convivere con il suo ragazzo dopo 7 anni di fidanzamento e adesso hanno comprato casa a 2 km da noi e hanno pure un figlioletto. Insomma, una vita "normale", "come dovrebbe essere". Mi porto dentro un'enorme sofferenza per questa incapacità di vivere una vita mia: mi par di vivere la vita di un altro, ma allo stesso tempo ogni cambiamento è bloccato da un senso di colpa fortissimo e da disgusto per me stessa, perché scegliendo la mia vita non sarei riconoscente verso chi fa o dice di fare il mio bene:. A ciò, a ondate si aggiunge la pressione sociale, perché a 33 anni non ho fidanzato e penso alla carriera, ai viaggi e allo sport, invece che a entrare nella "vita vera" cioé fare famiglia. Mi pare di non riuscire da sola a cambiare direzione, ma il dialogo in realtà non esiste in famiglia e non so da dove prendere le mosse per cambiare; forse un percorso con uno psicologo potrebbe aiutarmi a sbloccare il tutto? Grazie,
Alessandra