Salve a tutti, come dal titolo volevo qualche vostro parere. Lo psicoterapeuta è tenuto a dare, dire la sua diagnosi al suo paziente anche se questo non ha mai tirato fuori questo discorso? E se questo paziente soffre di un disturbo di personalità lo psicoterapeuta è in obbligo a comunicarlo? O deve essere il paziente a chiedere una sua diagnosi? E se il paziente soffre di un disturbo di personalità borderline e lo psicoterapeuta decidesse di comunicarglielo lo fa in modo diretto o con dei giri di parole? Voi come vi comportereste?
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25 NOV 2015
· Questa risposta è stata utile per 29 persone
Cara Cami
quando si inizia un rapporto terapeutico, in genere, si ha una prima fase di studio della personalità da parte del terapeuta che vuole (e deve) comprendere un poco più a fondo i sintomi che gli vengono presentati o il problema vissuto dal paziente (come difficoltà del momento).
Occorre cioè che le problematiche portate, nelle prime sedute, siano "contestualizzate" (in un assetto di personalità) in modo da poterne precisare il senso e riportarne lo studio "a monte" del problema, perlomeno vicini al "momento psicologico" in cui si è creato.
Tuttavia questa maggior chiarezza, che lo psicoterapeuta acquisisce sia con l'aiuto dei test psicologici e sia (soprattutto) attraverso i colloqui col paziente, non necessariamente deve rientrare in una "diagnosi etichetta" perché comunque ciò servirebbe poco ai fini della terapia.
Diciamo che il terapeuta si orienta verso un possibile disturbo riconosciuto e catalogato ma questo è una specie di "cartello stradale" che indica una località, non è e non può essere la località stessa!
Mi sono espressa con questa metafora per far comprendere che la realtà e la sofferenza di una persona è sempre unica e individuale, anche se la diagnosi può essere "verso" una determinata cosa.
Detto questo, personalmente non comunico al paziente una diagnosi , a meno che non mi venga espressamente richiesta (nel qual caso dirò di essere orientata verso una certa cosa) e comunque cercherò di far comprendere al paziente i contenuti personali del problema e la sua descrizione individuale (dando importanza a quello che lui dice!).
Penso che la comunicazione di una "etichetta diagnostica" sia fuorviante per il paziente che finisce poi per impadronirsene e per restringere il campo di riflessione e di descrizione di sè che è proprio l'ambito di lavoro della psicoterapia.
Il paziente-cliente etichettato, in qualche modo, a volte, si ripara dietro ciò in termini difensivi e inizia a dire... "tanto sono borderline.."
Spesso mi è capitato che arrivino pazienti e quando gli chiedo di loro parlano per etichette: es. "Sono ossessivo-compulsivo, ho la sindrome maniaco depressiva e sono pure borderline...questo mi è stato detto!" ...al che devo ricominciare tutto: " parlami di te.. di come sei e di cosa senti e provi...l'importante è questo!"
Spero aver reso l'idea del problema esistente con la diagnosi anche se non nego certo la sua utilità come orientamento e come studio da parte del terapeuta che deve assolutamente essere edotto in materia.
Nel lavoro pratico col paziente non è necessario, a mio avviso (anzi può essere controproducente), una dichiarazione netta in merito.
Un caro saluto
Dott. Silvana Ceccucci Psicologa Psicoterapeuta
29 NOV 2015
· Questa risposta è stata utile per 13 persone
Gentile Cami,
è evidente che, dai sintomi lamentati dal paziente e dal riconoscimento dei problemi che li causano e che emergono dai colloqui clinici delle sedute (nonchè da eventuali test somministrati) il terapeuta deve farsi una idea diagnostica del disturbo di personalità presentato dal paziente e della sua gravità (nevrotico, borderline, psicotico) tenendo anche come riferimento il cosiddetto D.S.M. (manuale diagniostico e statistico dei disturbi mentali) ma in realtà quello che più conta non è tanto l'applicare una etichetta diagnostica quanto il prendersi cura del paziente e procedere con il trattamento terapeutico adeguato per liberarlo dai suoi sintomi in modo che possa avere una migliore qualità di vita.
La comunicazione della diagnosi può essere fatta al paziente con parole comprensibili solo se la richiede ma in caso di patologia psicotica è bene informare i familiari stretti qualora questi non ne fossero già a conoscenza.
In realtà, proprio per il fatto che molti disturbi psicologici possono guarire, può essere preferibile evitare di applicare al paziente etichette diagnostiche che li porterebbero ad identificarsi con la psicopatologia diagnosticata, il che non è corretto e nemmeno utile.
Cordiali saluti.
Dr. Gennaro Fiore
medico-chirurgo, psicologo clinico, psicoterapeuta a Quadrivio di Campagna (Salerno).
26 NOV 2015
· Questa risposta è stata utile per 10 persone
Lo psicoterapeuta è impegnato a prendersi cura di chi si rivolge a lui per essere aiutato.
Se ritiene utile spiegare al suo paziente, con le parole giuste e con onestà, quale secondo lui è la diagnosi del o dei disturbi lo può fare. Anche il paziente può chiedrgli una diagnosi. Il punto è che la parola diagnosi è fuorviante perchè tratta dal gergo medico. Nella psiche le cose sono più vaste e articolate. Non credo possibile incasellarle in una definita diagnosi. E potrebbe essere anche controproducente, perchè nella psiche non c'è malattia, c'è sofferenza. Cordialmente. Dr. Marco Tartari , Asti
24 NOV 2015
· Questa risposta è stata utile per 2 persone
Buongiorno Cami,
condivido pienamente quanto argomentato dal collega, Dott. Fontana, che mi sembra abbia risposto in maniera precisa ed esauriente. Credo che sia importante capire il senso di questa domanda e questo è possibile farlo solamente all'interno del contesto terapeutico, diventando la sua stessa domanda tematica su cui lavorare.
24 NOV 2015
· Questa risposta è stata utile per 15 persone
Buongiorno,
comunicare una diagnosi spesso è noto comunemente come attribuire un'etichetta che se per un disturbo organico-funzionale implica un rapporto stretto tra sintomi e cause a monte lo stesso ragionamento induttivo non può estendersi alle varie forme di disagio mentale-affettivo.
Durante la terapia si passa spesso per momenti in cui è necessario comprendere insieme dove ci si trova, cosa sta accadendo e come nella vita della persona interessata e facendo la spola tra storia recente e antica per trovare insieme il motivo, il senso di questa forma di esistere.
Le categorie diagnostiche, e qui escludo le configurazioni sintomatiche del DSM V e della ICD-10, in quanto mere nomenclature di superficie, indicano realtà complesse di funzionamento, come le organizzazioni di personalità, che per esigenze di comunicazione scientifica tra le varie figure professionali (medici, psichiatri e psicologi) costituiscono una pura astrazione, una'illustrazione approssimativa di una forma che semplifica la persona.
Ribadisco, mentre una mela verde fuori e acidula dentro è una granny smith e questo è quanto, una persona che presenta certi sintomi e mostra un certo tipo di funzionamento rimane quella persona unica e irripetibile, pur presentando caratteristiche di funzionamento in comune con altre.
Tutto questo per dire che deontologicamente lo psicologo-psicoterapeuta è tenuto a essere chiaro nel suo modus operandi fin dall'inizio e in itinere, comprendendo anche quei momenti in cui ritiene sia arrivato il "quando" appropriato per offrire la propria valutazione.
Quindi, sul piano del tenuto o meno, deontologicamente non ci sono dubbi, la questione delicata è saper riconoscere il momento giusto perchè la "diagnosi" abbia un senso ai fini della terapia.
Spesso la richiesta diretta della persona interessata ha un motivo, ed è utile coglierne il senso. Per cui, altro aspetto importante è contestualizzare il "come" comunicare la propria valutazione.
Ancora più spesso, e premetto che è un sacrosanto diritto della persona aver chiaro il modus operandi della figura professionale ma soprattutto umana che ha scelto, voler sapere a tutti costi di che razza si è indica un'esigenza difensiva della persona, che necessita dell'etichetta per concretizzare e formalizzare un disagio vissuto come un'invasione, un'oppressione, un male da cacciare fuori per riconoscerlo prima e meglio.
Tuttavia, questa richiesta, seppur legittima e che può essere soddisfatta con tutti i crismi scientifico-professionali, mostra un bisogno difensivo della persona di semplificarsi, banalizzarsi, e inoltre di minimizzare, razionalizzare e intellettualizzare la propria esistenza volendo ricondurla a un disturbo conclamato. Ripeto, necessità comprensibile per una persona che ha difficoltà a prendere coscienza della fonte del proprio disagio.