Come ripartire con un percorso psicoterapeutico?
Un saluto a tutti,
mi chiamo Andrea, ho 34 anni, volevo ringraziare innanzitutto il sito per l'opportunità di questa sezione e i dottori a disposizione per l'ascolto.
Mi scuso per la lunghezza e tortuosità del messaggio, sono giorni che cerco di fare del mio meglio per tagliare il superfluo e essere più diretto ma non ci sono riuscito e rischiavo di non lasciare nessun messaggio continuando così e invece ho bisogno di un consiglio.
Scrivo qui perché vorrei riiniziare un percorso di psicoterapia e dovendo scegliere un nuovo terapeuta volevo chiedere il vostro aiuto nel capire se non ha funzionato qualcosa nel precedente percorso e come così cercare e mantenere una nuova relazione psicoterapeutica.
Intorno ho un clima di sfiducia perché famigliari e conoscenti a cui ho provato a descrivere come mi sento, hanno sempre disapprovato la mia voglia di un aiuto psicologico. Sminuiscono dicendomi che è normale che mi senta così, che sono fortunato, che non ho niente e mi sconsigliano di intraprendere una psicoterapia, che a loro non l'ha aiutati o non credono possa aiutare.
Prima della pandemia lavoravo in Inghilterra e avevo iniziato un percorso da uno psicologo durato sei mesi. Avevo cercato aiuto perché nonostante apparentemente avessi una vita normale con un lavoro e buone relazioni, mi sentivo da anni estremamente infelice e cominciavo ad avere pensieri suicidi. Preciso che è uno psicologo e psicoterapeuta qualificato e che si è comportato in maniere professionale. Gli approcci usati con me sono stati Cognitivo-comportamentale, mindfullness e schema therapy.
Mi ha aiutato moltissimo quindi mettendo in discussione giudizi, credenze e pensieri su di me e gli altri che davo per scontato, con la mindfullness mi ha aiutato ad entrare in contatto con il corpo e l'emozioni. Mi ha aiutato a trovare un lavoro migliore, casa, ad avere relazioni più sane. Mi ha fatto capire come in parte i contesti famigliari e lavorativi non avessero favorito e curato il dialogo emotivo.
E sono tutte strategie che uso ancora oggi e che mi aiutano e pensavo che avessi trovato una buona strada. Confrontandoci nelle ultime sedute, abbiamo deciso di prendere una pausa perché affrontando le mie difficoltà relazionali, non riuscivamo a cavarne niente. Poco dopo è successa la pandemia e perso il lavoro sono rientrato in Italia. E credevo che passate le difficoltà iniziali legate al covid avrei potuto continuare anche da solo ma mi sbagliavo.
Ora credo che mi serva una mano. Il mio precedente terapeuta opera solo in presenza così non posso proseguire quello che avevamo interrotto ma non so neanche se proseguirei con lui. La mia sensazione di oggi è che avessimo dato il massimo e non è stato poco l'aiuto che mi ha dato ma c'erano ambiti come quello relazionale o "emotivo" in cui non ci intendevamo, non riuscivo a fargli capire cosa provassi. E sicuramente la grossa parte di responsabilità nel non riuscire a spiegarmi era mia ma non sapevo cosa altro fare.
Durante le sedute mi sono sempre sentito molto vulnerabile. Ho sempre vissuto questo conflitto fra i miglioramenti che percepivo man mano e le emozioni dolorose di quando uscivo a fine seduta. E anche prima di iniziare. Ne avevo parlato con lui e mi aveva detto che era normale sentirsi vulnerabili e provare ansia o emozioni negative prima o dopo la seduta, così sono andato avanti.
La mia sensazione è che nonostante io mi aprissi il più possibile non mi sentivo capito. E' come se il nocciolo del problema venisse evitato. Ho dubbi che l'attenzione cognitiva, al ragionamento, alla discussione, alla meditazione abbiano fatto bene per qualcosa ma che abbiano peggiorato altro in un certo senso. Se è inadatto per un aiuto emotivo e di relazione con gli altri, se non sono stato in grado io di affrontare la cosa nel modo giusto o se ci sono dei limiti nell'approccio cognitivo-comportamentale e se sia consigliabile provare altri orientamenti. C'è questo conflitto con il rispetto e la riconoscenza delle competenze che indubbiamente mi hanno in gran parte aiutato e la sensazione che oltre un certo punto non mi potesse aiutare, che qualcosa d'importante mi sfuggiva. Mi sembra che il dialogo, le parole non riescano ad esprimere le emozioni, il mondo interiore.
Ad oggi, mi ritrovo in una condizione generale di sofferenza che m'impedisce persino di alzarmi a volte dal letto, tutto mi sembra estremamente faticoso. Al momento vivo con i miei genitori, non ho un lavoro fisso, non ho amici intimi né ho mai avuto una relazione sentimentale. Non ho problemi di salute fisica, ho rifatto recentemente analisi e controlli ed è tutto a posto. Cerco di prendermi cura di me il più possibile, compreso meditazione, bici, mangio sano, scrivo un diario per rimanere in contatto con le emozioni e i pensieri. Ho sempre però questa fatica mentale e fisica, mi sento come se stessi sempre sul punto di piangere. Aiuto in casa, faccio qualche lavoretto temporaneo, ho riprovato a fare qualche lavoro a tempo pieno per avere un'indipendenza e avere una mia casa ma aggiunge una sofferenza emotiva e fisica intollerabile al momento, così mi limito oltre ad aiutare a casa a fare qualche lavoro pagato alla giornata. Mi sforzo di uscire, di stare in mezzo agli altri per non rimanere tutto il giorno in casa. Nonostante qualche momento piacevole, c'è sempre quella sensazione di pianto e svuotamento della mente che mi fa venire voglia di riandare a casa.
Ho lavorato durante tutti i miei vent'anni come operaio agricolo, commesso, cuoco e barista in Italia e all'estero ed ho per lo più ricordi estremamente sofferenti, di stanchezza che non mi lasciava neanche energie fuori dal lavoro da dedicare a me stesso e agli altri. Mi rendo conto che è una visione esagerata perché ci sono stati anche bei momenti in mezzo ma non so neanche come avere un rapporto più bilanciato con questi ricordi. Solo all'idea di un lavoro sto male, né riesco ad immaginarmi un lavoro che vorrei fare o che mi piace, né come m'immagino io nel futuro in generale. Ho studiato letteratura italiana all'università, ma ho dato un'esame solo in un anno mentre lavoravo e ho studiato disegno per molti anni nel tempo libero da autodidatta. Ma ora ho perso completamente piacere sia nella letteratura che nell'arte, ogni volta che riprovavo a leggere qualcosa o a disegnare, dopo pochi minuti mi salgono sentimenti negativi e devo smettere e ormai associo queste attività come qualcosa che mi fa male.
Ho conosciuto tantissime persone ma il rapporto è sempre rimasto cordiale e basta. Mi sono impegnato molto per conoscerle meglio e provare ad aprirmi ma non sono riuscito mai ad avere un rapporto più intimo con nessuno. Credo di avere un anche un problema di fiducia perché mi sono sentito tradito in passato perfino da mio padre e da mio fratello.
Ho sempre ritenuto normale l'instabilità emotiva degli altri, perché in casa e anche nei vari appartamenti in cui ho vissuto per studio o lavoro duranti i miei vent'anni o sul luogo di lavoro mi sembrava normale che qualcuno potesse prendersi un momento di rabbia e di egocentrismo e sfogarsi con chiunque. Mi ha sempre profondamente intristito il distacco emotivo di qualcuno che vedo quando si arrabbia o è in preda all'ansia.
Di mio padre, dopo averlo odiato per un bel pezzo, ad oggi provo compassione e rispetto per non averci comunque fatto mancare niente dal punto di vista materiale e per capire che ha anche lui ha il suo vissuto che io non posso neanche capire a pieno. Nonostante non si fosse comportato sempre bene in passato, tutti i miei tentativi di avere un buon rapporto con lui mi facevano solo stare peggio quindi a oggi ci accontentiamo di una tiepida via di mezzo. Ho dovuto imporre dei limiti perché il suo comportamento è negativo verso di me e soffre d'ansia e scoppi di rabbia che non vuole curare ed ero stanco che mi buttasse giù ad ogni conversazione così ora ho un rapporto superficiale, senza nessun dialogo significativo. I miei sono separati in casa. Voglio molto bene a mia madre anche se anche lei affronta da anni insoddisfazioni e problemi psicologici ma riesce, andando spesso a casa della sua famiglia, ad avere un equilibrio migliore di mio padre credo e ha cercato anche aiuto psicologico in passato. Io l'aiuto come posso, ho provato anche a consigliargli a ricercare aiuto psicologico, a rifarsi una vita che gli piacesse ma non posso costringerla. Non mi sento compreso neanche da lei, da quando si sono separati, quando io ero adolescente, si è chiusa molto in se stessa. Ma comunque siamo tutti adulti e ho capito che i miei genitori non possono, o devono oltretutto, andare incontro ai miei bisogni emotivi.
Per riassumere quindi mi piacerebbe ricevere un parere su come valutare un percorso terapeutico e fare una buona scelta. Se nel caso ci sia un'approccio teorico differente dal cognitivo-comportamentale preferibile per me da quello che si può capire dalle mie esperienze precedenti e da quello che sento ancora come difficoltà irrisolte come le relazioni con gli altri, il contatto emotivo con me e gli altri e il lavoro. Cosa posso valutare nelle prime sedute nel capire se sta procedendo bene il rapporto terapeutico oppure no? C'è un'approccio migliore che io come paziente posso avere per migliorare la relazione terapeutica? Grazie ancora.,
Andrea