Triangolazioni familiari
L’articolo analizza il ruolo cruciale della famiglia nello sviluppo di personalità narcisistiche patologiche, evidenziando come dinamiche disfunzionali tra i genitori possano influenzare profondamente la crescita emotiva dei figli. Relazioni improntate su dominio e sottomissione, iper-responsabilizzazione.

Quante volte abbiamo sottolineato l’importanza del ruolo rivestito dalla famiglia, e in particolare del nucleo costituito dal triangolo genitori-figlio (o figli), nello sviluppo di personalità di carattere narcisistico-patologico?
Forse mai abbastanza, perché come è ben noto l’adulto di domani è stato il bambino di ieri, e quante più ferite si sono aperte durante la cruciale fase della crescita, nel periodo dell’infanzia, quando l’essere umano è fragile e bisognoso di sano accudimento da parte di chi lo ha messo al mondo, tante più saranno le disfunzionalità e i disturbi di personalità a partire dall’adolescenza e poi nell’età matura.
E tali crepe nel cuore e nella mente del figlio sono molto spesso provocate dall’incapacità di creare un rapporto sano dei genitori fra di loro e di conseguenza con il bambino che sono chiamati a crescere e educare.
Si osserva sovente, nella casistica che studia l’anamnesi del paziente affetto da disturbi di personalità, nello specifico di tipo narcisista, che questi ha avuto genitori la cui dinamica affettivo-relazionale era improntata a un confronto fra dominante e remissivo.
Il figlio, osservando le interazioni fra i suoi genitori, e assorbendo a livello subliminale la fascinazione o il timore per tale condotta di potere/sottomissione, da adulto molto probabilmente cercherà di replicare il ruolo di prevaricatore, anche perché in molti casi vorrà sfuggire a quello di vittima che, altrettanto facilmente, da bambino avrà subito da parte del genitore “reattivo”.
A volte, a rendere disfunzionale la dinamica familiare, e di conseguenza a minare il futuro equilibrio di un figlio, può essere la presenza di un genitore che, per le ragioni più diverse, si ritrovi da solo a crescerlo e educarlo, in assenza dell’altro.
L’iper responsabilizzazione cui potrebbe sentirsi sottoposto non giova di sicuro a un sano accudimento.
Spesso la dinamica genitore solo - figlio risulta incentrata su sensi di colpa: il genitore farà sentire al figlio tutto il peso di essersi dovuto sobbarcare il compito della sua crescita senza aver potuto contare sull’aiuto e la collaborazione dell’altro.
E il figlio si sentirà in colpa per aver causato (seppur involontariamente) tante pene e fatiche al proprio padre o alla propria madre rimasti senza partner.
Inoltre, altro caso assai ricorrente, il genitore “unico” sviluppa una sorta di rancore verso il mondo, verso una vita che gli ha riservato un destino tanto duro, con la deleteria conseguenza di essere assai poco accudente, anzi al contrario e paradossalmente, di aver bisogno a sua volta di cura, di cui si dovrà far carico il figlio il quale, per non pesare ulteriormente sul genitore infragilito e sofferente, cercherà di contenere e soffocare quanto più possibile le proprie naturali vulnerabilità.
Con la conseguenza di non riuscire, una volta adulto, a gestire in modo sano ed equilibrato le proprie relazioni sentimentali con eventuali partner.
Per non parlare poi di quei figli di genitori cosiddetti “dalle alte aspettative”, quelli che vengono sin dalla più tenera età a mettersi in competizione con gli altri, a partire dai coetanei, dai compagni di scuola o di giochi, sui quali ci si attende che primeggino sempre e comunque.
Pena, in caso di fallimento, anche parziale, il più o meno malcelato disprezzo da parte dei genitori che ne pretendevano il trionfo assoluto in ogni circostanza, magari perché a loro volta frustrati da insuccessi (risalenti all’infanzia o all’età adulta) che non sono riusciti a perdonarsi o a farsi perdonare.
Insegnare il valore della sconfitta, della fragilità costruttiva, ovvero di quei momenti della vita dai quali si impara a comprendere di avere dei limiti e che questi non sono dei confini invalicabili, bensì un tracciato entro il quale sviluppare i propri talenti individuali e la comprensione di quelli altrui (limiti e talenti), ebbene, è un atto fondamentale della vita e della dinamica genitori - figli, un passaggio evolutivo da un punto di vista psicologico assolutamente imprescindibile, se non si vuole un mondo popolato da pericolosi insicuri pieni di rabbia e desiderio di rivalsa nei confronti del prossimo.
Non stanno messi meglio nemmeno quei figli di genitori che, per varie circostanze, sentono come un dovere granitico quello di mantener sempre e comunque un basso profilo, nascondersi quasi al mondo là fuori: un atteggiamento di totale remissione che comporta anche la condanna di eventuali comportamenti da parte di un figlio che viceversa desideri emergere da quella palude di grigiore, magari facendo valere qualche proprio talento che sente di possedere.
Si rischia di trasformare, soffocandolo, un sano e vitale bisogno di affermazione in un ribellistico senso di rabbia contro un mondo che si è stati costretti a percepire sempre come ingiusto, sì, ma contro il quale non era il caso di opporsi.
Insomma, educare è parola che significa “portare verso”, perciò dipende verso quale orizzonte un genitore è in grado di far affacciare il proprio figlio. E dovrebbe essere un panorama di libertà (non incondizionata, ma fatta di rispetto per quella altrui, innanzitutto), di sostegno alle inclinazioni naturali che ognuno di noi possiede, e mai di angustiante prigionia in dinamiche improntate a rapporti di forza, di prevaricazione, di dominio, che sono solo lo specchio di una intima solitudine e paura che un genitore non dovrebbe mai trasmettere a un figlio.
Non a caso si dice “dare alla luce”, non al buio.
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