Quanto e come è importante prendersi cura nel Lavoro di cura?

Una integrazione sufficientemente buona tra teoria e prassi, che tenda ad una continua evoluzione funzionale, è possibile se chi si prende cura di altri impara a prendersi cura di sé.

11 APR 2020 · Tempo di lettura: min.

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Quanto e come è importante prendersi cura nel Lavoro di cura?

Con "Lavoro di Cura" faccio riferimento all'universo mondo dei Servizi Socio-Sanitari-Educativi, che si occupa, sotto varie forme e attraverso molteplici Persone, portatrici di specifiche professionalità, appunto, di "Cura dell'Altro". L'Altro in questione usufruisce di un Servizio in qualità di Persona, nel ruolo di paziente, utente, cliente, caso et al.

Parliamo, quindi, principalmente di un incontro tra persone, le quali, in base ai propri ruoli, portano una domanda o propongono una offerta, all'interno di contesti reali più o meno organizzati. Da questo incontro tra persone, che si trovano in una posizione, in qualche misura, non simmetrica, rispetto alla relazione di aiuto e cura, può nascere un processo di presa in carico, all'interno del quale può avvenire una sorta di scambio. Quindi, per esempio, il professionista in questione può apprendere dall'esperienza stessa del suo specifico intervento, incrementando la sua formazione attraverso l'integrazione tra teoria e pratica, mentre il fruitore del servizio può beneficiare dell'intervento stesso, interiorizzarne alcune parti, farle proprie e riportarne alcuni pezzi funzionali all'interno del proprio contesto di vita e appartenenza.

Credo fermamente nel valore aggiunto che, in questi possibili processi, possano giocare risorse, personali e organizzative, legate, per esempio, a resilienza, accomodamento e consapevolezza, all'interno di un lavoro continuo di integrazione tra scienza, coscienza e conoscenza. A mio modesto parere, una integrazione sufficientemente buona tra teoria e prassi, che tenda ad una continua evoluzione funzionale, risulta possibile, soprattutto, se le persone che si prendono cura di altre, imparano a prendersi cura di sé.

Spesso si evidenzia come coloro che lavorano, o intendono lavorare con e per la cura dell'altro, si approccino al lavoro stesso di cura proprio a partire da un proprio bisogno personale. A questo proposito, mi capita di ironizzare rispetto alla mia categoria professionale di appartenenza, affermando che le facoltà universitarie di psicologia possono, in qualche misura, rappresentare "una sorta di campionario del DSM" (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, redatto dall'American Psychiatric Association). Oltre a questo, di norma, faccio anche presente come ogni professionista sia prima di tutto una persona, caratterizzata da specifiche risorse e criticità, alla luce del proprio peculiare bagaglio, personale e professionale. Credo sia auspicabile che ogni persona, durante il corso della propria vita, lavori sulle proprie risorse e le sviluppi, ma anche sui propri "irrisolti", alla base di tendenze emotive, cognitive e comportamentali, più o meno funzionali. Orbene, credo fermamente che le persone che decidono di lavorare con e per altre persone, in una relazione di cura, abbiano in qualche misura una responsabilità etica permanente rispetto a tale scelta di vita professionale. Dovrebbe, quindi, essere sia un dovere che un piacere occuparsi e pre-occuparsi della cura di sé, a livello personale, di modo da incrementare efficacia ed efficienza dei propri interventi professionali, con un atteggiamento onestamente più funzionale, nel suo complesso. Rispetto ad una possibile "cultura del lavoro di cura", credo che la scissione tra vita privata e vita lavorativa possa, in qualche misura, incrementare il rischio di episodi dissociativi disfunzionali; ritengo, infatti, che la vita sia vita e che ci si giochi attraverso molteplici ruoli, personali e professionali. Credo, quindi, che risulti importante lavorare su processi integrativi, a vari livelli.

Spesso le persone, in qualità di utenti, mi riportano in colloquio episodi di fatica nel "muoversi tra i servizi" (es. prenotare una visita, rielaborare contenuti e modi di comunicazione di alcuni professionisti di varia natura, orientarsi per trovare il possibile servizio che risponda ai propri bisogni, mettersi in contatto e-o accedere ad un servizio, reperire e compilare moduli di richiesta di un servizio et al). Talvolta, mi capita di utilizzare l'espressione "schizofrenia comunicativa pre-ciclica", per rappresentare possibili sistemi o processi disfunzionali, di gestione e comunicazione, all'interno di uno o più Servizi alla Persona.

Provo a sintetizzare alcuni esempi di situazioni, riportate durante percorsi di consulenze al ruolo, svolti in qualità di psicologa, e di scambi, intercorsi a livello personale.

Pensiamo, per esempio, ad un medico che, durante la sua crescita, ha vissuto importanti sentimenti di inadeguatezza, scegliendo di fare questo lavoro per seguire le orme del padre. Come il nostro medico potrebbe gestire il rapporto tra il suo ruolo e questi sentimenti, nel caso in cui non se ne fosse mai occupato in termini di consapevolezza? Poniamo che, di norma, tenda ad agire, inconsapevolmente, sulla base di un meccanismo del tipo "adesso ti dimostro quanto e come sono capace"; come gestirebbe, per esempio, la comunicazione medico-paziente-infermiere, in termini di contenuti e modalità?

Pensiamo, invece, ad un infermiere che sognava di studiare medicina, ma ha optato per infermieristica perché non ammesso ai primi test d'ingresso svolti. Potrebbe anche essere che, invece, non abbia neanche provato a svolgerli; magari, influenzato da pareri di cari o insegnanti, rispetto a mercato del lavoro, durata degli studi o sue capacità. Come potrebbe gestire, per esempio, il confronto con le figure mediche con cui si troverà a collaborare? Come gestirebbe il fallimento e-o la scelta di non provare/riprovare, ma optare per un'altra formazione che, una volta diventata professione, dovrebbe continuare a svolgere tutta la vita?

Proviamo ad immaginare che un coordinatore, responsabile o direttore, abbia una immagine grandiosa di sé e una tendenza ad oscillare tra idealizzazione e svalutazione dell'altro. Potrebbe, infatti, essere che ambizione e capacità di valorizzare sé e l'altro, nel momento giusto, abbiano comportato uno scatto di crescita e carriera professionale. Come tal persona e professionista potrebbe operare, appunto, "responsabilmente", all'interno di un reale spazio di potenza, contenendo il rischio di oscillare tra impotenza e onnipotenza? In caso di possibile uso improprio o abuso di potere, quali potrebbero essere le conseguenze per i diretti collaboratori?

Pensiamo ad una figura amministrativa di un servizio, che si occupa di fronte-office, quindi gestisce almeno la prima comunicazione sia con professionisti che utenti et al. Proviamo ad ipotizzare che subisca maltrattamenti in ambito domestico o che ne sia carnefice. Quanto e come i toni emotivi della sua comunicazione potrebbero influenzare gli interventi dei suoi innumerevoli interlocutori?

Proviamo a pensare ad un educatore professionale, che si ritrova ad essere caregiver di una persona con disabilità o demenza senile in famiglia. Quanto e come potrebbe gestire carichi e sovraccarichi di un doppio, o più, lavoro di cura?

Pensiamo ad uno psicologo che continua a specializzarsi, non tanto per l'utilità di una formazione continua, ma perché convinto non avere abbastanza strumenti per svolgere la professione psicologo stessa. Come potrebbe gestire i suoi interventi in termini di efficacia e senso percepito di efficacia?

Proviamo a pensare ad un Operatore-Socio-Sanitario la cui personalità è caratterizzata da importanti tratti ansiosi. Quanto e come la possibile escalation paura-ansia-panico potrebbe influenzare performance, posizione contrattuale, comunicazioni e relazioni con superiori, colleghi e utenti?

Pensiamo ad un Ausiliare-Socio-Assistenziale che ha desiderato, ma non è riuscito, per varie ragioni, ad avere figli. Come l'elaborazione di questa mancata esperienza di cura potrebbe influenzare il proprio lavoro di cura?

Proviamo a pensare ad un tecnico della riabilitazione che incontri difficoltà nella sua vita sessuale e affettiva, a causa di problemi psico-fisiologici. Come potrebbe gestire possibili frustrazioni conseguenti nella relazione con colleghi, superiori e utenti?

Può anche capitare che non vi sia un buon livello di integrazione tra ruolo, esperienza e formazione, oppure ancora che, dopo diversi anni di pratica di una professione, non accompagnata da un lavoro di cura del sé, si possano creare condizioni di "burnout selettivo". Con questa espressione intendo rappresentare quelle situazioni in cui un professionista vive una sorta di "congelamento personale, comportamentale, emotivo e cognitivo", per sovra o sotto-stimolazione e, conseguente, iper o de-sensibilizzazione ad alcuni stimoli del proprio lavoro (es. burocrazia, colleganza, rapporto con le autorità, utenza stessa et al).

Gli esempi potrebbero continuare, "mischiando" vari contesti di appartenenza familiari, tratti di personalità più o meno funzionali, talvolta disturbati e disturbanti, ruoli differenti, contesti professionali diversificati (tra pubblico, privato e convenzionato e-o tra vari livelli di complessità organizzativa, all'interno di piccole-medie o grandi realtà).

Pensiamo all'impatto dell'Emergenza Sanitaria, che stiamo vivendo ora, su persone e realtà professionali che incontravano importanti difficoltà di cura, consapevolezza, gestione e comunicazione già prima. Quali possibili conseguenze, oggi, sull'utenza?

Esistono diversi strumenti che rendono possibile, efficace ed efficiente il lavoro di cura all'interno di contesti di cura. Orientarsi, sceglierli, utilizzarli, verificare i risultati e decidere se cambiare o proseguire, può, a mio modesto parere, essere considerato un atto etico di responsabilità personale e professionale.

A livello individuale possiamo, per esempio, parlare di consulenza al ruolo, supervisione, sostegno e supporto psicologico, psicoterapia, formazione, informazione et al.

A livello organizzativo possiamo, per esempio, parlare di consulenza e analisi dei processi lavorativi, ricerche multi-fattoriali di customer satisfaction, supervisione, progetti di analisi e sviluppo del potenziale et al.

Credo che stia ad ognuno prendersi il proprio "pezzo di responsabilità" nella Cura, individuale e condivisa; nel pieno rispetto di persone, ruoli, obiettivi e risultati … strutturarsi al meglio, come persone e professionisti, per strutturare al meglio le organizzazioni a cui apparteniamo e per le quali collaboriamo.

Le organizzazioni sono fatte da persone, tanto quanto le persone da organizzazioni. Prendiamocene cura.

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