Psicologia e religione

La dimensione religiosa dei pazienti è una delle aree personali che entra nella dinamica della consulenza e della psicoterapia. Lo psicologo deve trattarla come via per conoscere la persona.

20 DIC 2018 · Tempo di lettura: min.
Psicologia e religione

Comincio questa riflessione con alcune domande.

  • Chi ha una fede e una appartenenza religiosa sentita e consolidata richiede un aiuto psicologico o è diffidente?
  • Ma cosa pensano gli psicologi della religione?

Pazienti e posizione religiosa

Andiamo con ordine. Alla prima domanda rispondo che molti pazienti clienti che si rivolgono agli psicologi nel nostro contesto italiano hanno una appartenenza religiosa, personalmente lo confermo nella mia pratica clinica nonostante uno sguardo al contesto europeo indichi la direzione di una diminuzione marcata della appartenenza e pratica religiosa, come riportato da un recente articolo de Il Sole 24 ore.

In questa rielaborazione dei dati del mio studio professionale emerge che in un terzo delle persone la posizione religiosa non è nota, e ciò dipende dal fatto che ho incluso in questa tabella anche coloro che hanno fatto solo uno o pochissimi incontri, e coloro la cui posizione rimane comunque non chiara e oscillante tra una appartenenza religiosa tradizionale e una personale adesione e pratica. I cattolici, compresi alcuni impegnati in vari movimenti e associazioni ecclesiali, sono quasi la metà (45%) e il restante 37% si divide tra atei ed agnostici/indifferenti.

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Dunque la dimensione religiosa della vita è rilevante per una buona quota dei pazienti che ci domandano un aiuto per un problema o sfida della vita (scelte di orientamento professionale, disagi di coppia o smarrimento del senso della vita in età matura) o che accusano sintomi di tipo psichiatrico-psicopatologico come ansia, depressione, attacchi di panico, fobie, esiti post-traumatici, ecc.

Psicologi e posizione religiosa

Ma cosa pensano e quali posizioni prevalgono tra gli psicologi rispetto alla appartenenza e pratica religiosa? Non sono a conoscenza di specifici dati italiani, i dati che conosco sono riportati da autori nord americani (Bergin, 1990) che indicano una maggiore tendenza alla non religiosità nella popolazione degli psicologi rispetto a quella generale, ma altri (E. Shafranske, 1996, in Religion and Clinical Practice of Psychology, American Psychological Association, Washington D.C, pp. 149-160) dati suggeriscono che l'orientamento religioso degli psicologi sia fondamentalmente simile a quello della popolazione generale, ponendo però il problema di quale influsso tale orientamento abbia sulla consulenza e sulla psicoterapia, che sono pratiche fortemente orientate dai valori personali.

Shafranske suggerisce quindi l'importanza di una formazione specifica per gli psicologi nella valutazione e utilizzo della dimensione religiosa nella cura dei pazienti in modo da non lasciare il campo ai semplici pregiudizi e orientamenti personali, più o meno consapevoli. Condivido tale proposta che diversi anni dopo è ancora fondamentalmente inevasa. Una nota Psicoanalista Statunitense mi diceva, in margine ad un convegno, che spesso gli psicoterapeuti dalle sue parti quando un paziente pone problematiche religiose diventano rossi e balbettano, cosa che non fanno certo… quando si parla di sesso (A. M. Rizzuto, M.D., comunicazione personale).

Conclusione

Quando un paziente pone importanti questioni religiose che si intrecciano con le personali problematiche esistenziali e di salute psichica è importante che lo psicologo sappia destreggiarsi tra le stesse e connetterle con la pratica e la deontologia professionale.

Autore: dr. Paolo Ciotti, Psicologo Psicoterapeuta, Carate Brianza e Monza (MB), iscritto all'Ordine degli Psicologi della Lombardia.

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Scritto da

Dr. Paolo Ciotti

Il Dr. Paolo Ciotti è Psicologo Psicoterapeuta ad orientamento sistemico relazionale specializzato in terapia EMDR (livello Practitioner) e Ipnosi. Pone particolare attenzione ai temi esistenziali e spirituali nel ciclo di vita. Lavora con individui, coppie e famiglie. Riceve a Carate Brianza e Monza ed effettua consulenze online.

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Commenti 3
  • Mauro Cassini

    Grazie dell'articolo. Mi ha colpito il commento lasciato da un altro lettore (Stefano Cavaliere) che parla dei "sintomi" legati alla religione... Avere una relazione con Dio, che si regge sulla Fede (che è un dono, una forza) non è semplicemente vedere, parlare o sentire cose o persone che non esistono. Uccidere in nome di un Dio invisibile? E' fanatismo. Ma perché non ha fatto un altro esempio: Dare la vita per un amico nel nome di un Dio invisibile? Casuale? "Charitas Christi urget nos" (=l'amore di Cristo ci spinge ) Se l'avere fede fosse considerata una psicopatologia sarebbe semplicemente falsità mentre la psicologia cerca la verità. Sbaglio se dico che sia la Psicologia che la Fede spingono verso la motivazione, la speranza di credere in qualcosa e di sperare?

  • Stefano cavaliere

    Grazie per la risposta anche se non si è entrati nel dettaglio, ma così per fare alcune riflessioni che mi pongo; se fossero poche persone al mondo a credere in dio sarebbe considerata una pseudologia fantastica? Vedo che molti sintomi legati alla religione (vedere, parlare o sentire cose o persone che non esistono, uccidere in nome di un dio invisibile, vivere la propria vita per un essere supremo che si crede esista solo per sentito dire etc...) sono Classificati nel dsm-5 come malattie psichiche e per me lo sono, ma visto che ci credono in tanti è considerato normale...

  • Stefano cavaliere

    Ma perché credere in un ''essere onnipotente invisibile'' che vede tutto e con cui si parla quotidianamente non é considerato una psicopatologia? Perché lo fanno in tanti?

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