Ottiene l'eutanasia perché depressa: la storia di Ines

Nel raccontare la storia della donna cercheremo di fornire informazioni scevre da qualsiasi giudizio e un punto di vista professionale attraverso l'intervista alla dottoressa Orsenigo.

6 NOV 2015 · Tempo di lettura: min.
Ottiene l'eutanasia perché depressa: la storia di Ines

Ines ha 24 anni ed è affetta da una grave forma di depressione. La storia di questa giovane ragazza è venuta alla ribalta lo scorso luglio ed è arrivata fino a noi direttamente dal Belgio. La donna ha chiesto e ottenuto di ricorrere all'eutanasia, la cosiddetta "dolce morte". La malattia psichiatrica da cui è colpita fin dall'infanzia è divenuta così invalidante da non rendere possibile una "vita sopportabile".

Da qui la scelta di porre fine alla propria esistenza perché quanto fatto per lenire il quadro psichiatrico viene da lei definito inutile.

Dai suoi racconti si apprende che già all'età di sei anni pensava al suicidio, pensiero che si colloca in un contesto familiare piuttosto complesso e intrecciato: il padre alcolista e la disgregazione della famiglia dopo la separazione dei suoi genitori.

Il contesto

Ines viene cresciuta dai suoi nonni materni. A scuola manifestava condotte autolesioniste e manie suicide che la accompagnano costantemente nel suo fin troppo breve percorso di vita, fino al ricovero in un istituto psichiatrico avvenuto all'età di 21 anni.

Gli insuccessi dei trattamenti effettuati all'interno della struttura psichiatrica indeboliscono ancora di più la giovane donna. Poi incontra una ragazza che sta organizzando la propria eutanasia.

Quest'incontro apre a Ines uno scorcio mentale liberatorio: la dolce morte potrebbe porre fine a quell'esistenza drammatica e disperata.

È opportuno ricordare che il Belgio ha legalizzato l'eutanasia nel 2002 con circa 1400 richieste ogni anno. Nel 2013 le richieste sono andate oltre le 1800 e, in quello stesso anno, la legge è stata estesa alle richieste per bambini malati terminali.

La difficile infanzia, la giovane età dei genitori, peraltro disfunzionali nella loro relazione ma anche rispetto a una personale maturazione emotiva, sono certamente fattori significativi nell'infanzia di Ines, ma non ritenuti dalla stessa determinanti rispetto alla patologia depressiva invalidante e al suo desiderio di morte. Una brama percepita come così profonda da non poter trovare giustificazione nella travagliata vita familiare.

Tre medici le danno ragione e assecondano la sua richiesta di eutanasia quale unica possibilità di porre fine a un'esistenza segnata da una depressione intollerabile che non trova rimedio in nessun modo, se non addirittura un continuo peggioramento.

Questo è, in sintesi, l'ambito nel quale si colloca la storia della donna. Abbiamo pensato potesse essere interessante parlare con un esperto per avere un punto di vista professionale sulla storia di Ines.

Per questo abbiamo intervistato la dottoressa Orsenigo, la quale ha voluto anteporre alle sue risposte due precisazioni, dovute a se stessa così come ai suoi lettori:

Prima di tutto vorrei dire che quanto riferirò è frutto della mia esperienza clinica in qualità di libera professionista da oltre 25 anni. In secondo luogo, alcuni riferimenti teorici saranno solo riportati affinché chi volesse approfondire possa consultare quanto di più scientifico possibile, magari non sempre di recente edizione, ma comunque colonne portanti di teorie ad oggi ancora trasversali ai differenti approcci psicoterapici.

L'eutanasia si definisce come la buona morte concessa nell'interesse di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa. Dobbiamo trarne che la depressione può essere una malattia incurabile?

La depressione è una patologia psichiatrica rilevante e presente, nelle sue variabili, nel Dsmv, che è il manuale di Psichiatria riconosciuto dall'intera Comunità scientifica Internazionale, secondo le linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

Episodi di depressione maggiore, come altre manifestazioni depressive secondarie sottostanti a patologie psichiatriche di diversa natura, possono risultare molto invalidanti rispetto alla qualità di vita del paziente, provocando anche un certo danno sul nucleo in cui si trova collocato.

Manifestazioni depressive, così invasive, hanno bisogno di un costante trattamento psicofarmacologico specialistico (psichiatrico) con monitoraggio della risposta ai farmaci regolare e continuativo.

A mio avviso l'aiuto psicologico non può prescindere da quello farmacologico e richiede un'attenta valutazione clinica del quadro di personalità sottostante, onde evitare interventi non solo poco efficaci, ma più dannosi che utili.

Le competenze cliniche dello psicoterapeuta, indispensabili, non possono essere disgiunte da un confronto riflessivo e collaborativo tra due specialisti della salute psichica, nell'interesse del fruitore del servizio.

Le idee suicidarie si collocano in modo coerente con il quadro suddetto, ma non solo con questo.

È doveroso essere consapevoli del fatto che le idee suicidarie possono restare tali ma anche trasformarsi "in agiti", non sempre dimostrativi, ma anche letali!

Mi piace pensare alla depressione come "il buio spazio dell'Anima", il tunnel oscuro di cui non si vede o intravede la fine. Il dr. Bach, famoso per le omonime essenze floreali, abusate, mal usate, auto-prescritte, indica un bellissimo fiore: il "Sweet Chestnut" (ippocastano dolce), cui rimando, per chi fosse interessato, perché traduce nella segnatura della pianta e nel colore del fiore una nota di speranza al pari del Californiano S.Jhon Worth, che porta "luce dove regna il buio".

La depressione, da un punto di vista esistenziale, rimanda alla "buia notte dell'Anima", alla perdita di ogni speranza e di ogni aspettativa.

Invito i lettori "curiosi" a leggere: "Uno Psicologo nei lager" di V. Frank.

Questa è la mia risposta alla domanda: allora la depressione è una malattia incurabile", ma cosa significa "incurabile"?

Incurabile rispetto a quale standard di performance? Ci sono depressi che ricorrono al suicidio, ci sono depressi che riescono a vivere con molta sofferenza, ma percorrono il sentiero della vita!

Nessuno dei due estremi, volutamente citati, sono meglio o peggio: sono realtà diverse, reazioni diverse, individui differenti, ognuno nella sua specificità e peculiarità, che deve essere riconosciuta, sostenuta e rispettata. Nessun giudizio: non ci compete!

La ragazza, durante un'intervista, ha dichiarato: «La morte non la sento come una scelta. Se potessi scegliere vorrei una vita sopportabile, ma ho fatto tutto e non ha avuto successo». Cosa pensa di quest'affermazione?

Se la morte risponde a una scelta responsabile e consapevole, non manipolativa e strumentale, io ritengo meriti rispetto e dignitoso silenzio.

Ognuno risponde di sé, ai propri valori, ai propri principi etici, alla propria storia.

Personalmente non sono favorevole all'eutanasia in quanto ritengo la vita "un dono" che ci viene fatto e di cui siamo responsabili", ma rispetto profondamente scelte diverse.

Sono contraria a qualsiasi accanimento terapeutico: si rischia di "identificare l'amore con l'egoismo, il nostro, che abbiamo paura di "lasciare andare". Ho frequentato per oltre dieci anni, per lavoro e per motivi personali, i RSA (Residenze Sanitarie Anziani), un tempo, note, come "case di riposo". Osservavo quest'umanità sofferente, talvolta straziata nel corpo e nella mente, bisognosa di calore e di contatto umano; in quello stesso ambiente non mancano coloro che sono "incattiviti", con il prossimo e con sé, forse per le limitazioni cui sono esposti. Eppure mi stupiva l'attaccamento alla vita di alcuni di loro pur di "esserci". Più volte mi sono chiesta: qualità o quantità di vita?

È d'accordo con i medici che hanno dato il consenso? Come si sarebbe comportata al loro posto?

Nutro profondo rispetto per i medici che hanno dato il consenso. Bisogna trovarsi in certe situazioni e giungere a operare nelle scelte umane e deontologiche che ogni "operatore della salute" non può delegare o sottovalutare.

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La ragazza afferma di aver iniziato a pensare al suicidio a soli sei anni. È plausibile?

Sì, mi sento di rispondere che può essere plausibile pensare fin dalla tenera età al suicidio.

I figli capiscono molto bene il clima familiare, le sofferenze e i travagli in cui si trovano immersi. Mi chiedo quale tipo di "attaccamento" potrebbe aver sviluppato questa bambina di fronte a due "perdite": un padre alcolista, violento, vittima di una dipendenza che "brucia" il fegato e le cellule cerebrali; e poi un'altra perdita, l'unità familiare. Gli studi attuali sulla famiglia ci dicono, e trovano conferma quotidiana nella pratica clinica, che un "minore" sta meno male in un contesto familiare di genitori separati purché non replichino la "guerra dei Roses", piuttosto che in un ambiente di costante conflittualità. Viene a mancare la "sicurezza che un nucleo familiare integro e mediamente funzionante", non perfetto, può costituire "una base sicura". Detto ciò, le capacità adattive dell'essere umano sono sorprendenti e con esse le sue risorse, così come le capacità di rispondere alle situazioni stressanti (resilienza) e attuare opportune strategie (coping).

In linea più generale, lei crede che l'eutanasia si debba concedere solo per condizioni gravi fisiche o anche mentali?

Ritengo la "sofferenza del cuore" non meno dolorosa di quella del corpo.

L'una è poco visibile, talvolta del tutto invisibile. Non appare negli esami clinici più sofisticati, ma procura tanto dolore; l'altra risulta "tangibile". È lì, si vede, e per certi versi ci rassicura, proprio per quel "quantum di oggettività" che la caratterizza. Inoltre, l'essere umano, è una "totalità bio-psico-spirituale inscindibile" e non solo per la medicina cosiddetta "alternativa", ma anche per la psicosomatica.

Lei ha mai avuto un caso simile di qualche paziente arrivato a una tale disperazione? O peggio ancora, qualche caso di suicidio?

Non mi sono mai, finora, trovata di fronte a una persona che mi abbia portato il tema dell'eutanasia.

Nella mia esperienza professionale mi sono trovata due volte a dover fare i conti con un tentato suicidio e un suicidio realizzato. Entrambi poco dopo la conclusione del percorso terapeutico. Sono state due esperienze diverse ma entrambe molto forti e che, nonostante la buona pratica delle settimanali "supervisioni", mi hanno fatto riflettere a lungo, portandomi a una svolta professionale. Entrambe le situazioni si collocano nei primi sei/sette anni di esercizio della professione.

Nella prima situazione, il tentato suicidio, ha confermato un'ipotesi che avevo formulato e comunicato al paziente: "non era ancora tempo di chiudere il cammino". Detto ciò, è comunque stato un evento forte. Il secondo, ha riguardato una paziente che, qualche mese dopo la conclusione del nostro lavoro, allora di taglio prevalentemente "cognitivo", mi ha portata a fare un grande viraggio nella direzione delle psicoterapie psicodinamiche focali, facendo un lungo lavoro sulla mia pelle. Oggi, ripensando a questi due episodi, sono grata per quanto mi hanno reso possibile comprendere e ampliare gli strumenti di lavoro ma non misconosco che, quest'ultimo, sia stato per me "una dura ma utile lezione di vita professionale e umana".

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Scritto da

Dott.ssa Annalisa Orsenigo

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