Le radici dell’attaccamento: come le nostre prime relazioni formano il nostro modo di stare al mondo

Esploro come le prime esperienze di attaccamento contribuiscano alla formazione della personalità e influenzino il modo in cui ci relazioniamo da adulti, evidenziando come la relazione terapeutica possa offrire uno spazio di riparazione e crescita

15 OTT 2025 · Tempo di lettura: min.
Le radici dell’attaccamento

Ci sono persone che affrontano la vita con la sensazione profonda di poter contare su qualcuno, e altre che, pur desiderandolo, sentono sempre di doversela cavare da sole. Alcune si aggrappano alle relazioni con la paura costante di perderle, altre si muovono evitando ogni coinvolgimento emotivo. Ognuno di noi, nel proprio modo di viversi in relazione, porta con sé una sorta di "traccia" che affonda le radici nei primi legami della nostra storia di vita.

Le origini dell’attaccamento: Bowlby e Ainsworth

È infatti dai primi sguardi e dalle braccia che ci hanno accolto, o talvolta deluso, che impariamo cosa significa sentirsi al sicuro accanto a qualcuno. È da questo tipo di comunicazioni, anche implicite e silenziose, con cui ci relazioniamo all'altro che nasce il linguaggio silenzioso con cui ci muoviamo nelle relazioni per tutta la vita: il linguaggio dell'attaccamento.

Gli stili di attaccamento

La teoria dell'attaccamento è stata sviluppata dallo psicoanalista John Bowlby e approfondita successivamente da Mary Ainsworth, e rappresenta una delle basi più solide per comprendere come si formano le nostre modalità relazionali. Bowlby sosteneva che il bisogno di creare legami affettivi stabili non è un segno di dipendenza o debolezza, ma una parte essenziale della natura umana, un meccanismo evolutivo che ci garantisce sicurezza e sopravvivenza. Fin dai primi giorni di vita, ogni bambino cerca nel volto dell'adulto una base sicura: qualcuno da cui partire e a cui poter tornare.

La Ainsworth divenne particolarmente importante con le sue osservazioni nel famoso esperimento della Strange Situation, nel quale descrisse i diversi stili di attaccamento. Con questi si intende fare riferimento ai differenti modi di gestire la vicinanza, la separazione e il bisogno di protezione dall'altro. Da allora, questi modelli sono diventati una chiave di lettura fondamentale per comprendere come ciascuno di noi co-costruisce le proprie relazioni e pone le basi per strutturare la propria identità. Ecco di seguito una breve panoramica dei diversi stili di attaccamento:

Attaccamento sicuro

Il primo stile è l'attaccamento sicuro, che si sviluppa quando il bambino sperimenta una figura di riferimento stabile, coerente e accogliente. È quella madre (o quel padre) che risponde con sensibilità ai bisogni del piccolo, che lo consola quando piange e lo lascia esplorare quando è curioso. Questi bambini crescono con la sensazione profonda che il mondo sia un luogo affidabile, che gli altri possano essere fonte di conforto e che i legami non siano una minaccia. Da adulti, chi ha interiorizzato un attaccamento sicuro tende a costruire relazioni basate sulla fiducia reciproca e sulla possibilità di chiedere aiuto senza giudicarsi come deboli.

Attaccamento ansioso-ambivalente

Il secondo stile è l'attaccamento ansioso-ambivalente, e nasce invece in contesti in cui la figura di riferimento è incostante: a volte presente e accogliente, altre volte distante o imprevedibile. Il bambino non sa mai se le sue richieste verranno ascoltate o meno e così è possibile che si sviluppi una forma di iper-vigilanza o allerta emotiva. Da adulto, chi ha questo tipo di attaccamento tende a cercare conferme continue, a interpretare anche piccole distanze come segnali di disinteresse, fino a temerne l'abbandono. Vive l'amore con grande intensità, ma anche con grande ansia: questo può generare diversi interrogativi rispetto al proprio percepito su cosa sia l'amore (può essere confuso con l'intensità percepita dalla costante allerta relazionale).

Attaccamento evitante

Il terzo stile è l'attaccamento evitante e si forma quando la figura di riferimento è sistematicamente distante o rifiutante. Il bambino, per proteggersi, impara a non mostrare il bisogno di conforto, perché quel bisogno è stato ignorato o svalutato. Impara presto che "non serve piangere", e che affidarsi all'altro può essere pericoloso. Da adulto, tende a privilegiare l'autosufficienza e a mantenere un alto controllo emotivo con il fine di evitare un'intimità più profonda. Può apparire indipendente e forte, ma spesso dietro questa corazza si cela una paura antica di essere deluso o invaso. Un rischio, in tal senso, è proprio quello di muoversi a partire da questa convinzione aprioristica, raccogliendo di fatto il risultato temuto. (Ho approfondito questo tema in un altro articolo dedicato alla profezia che si autoavvera.)

Attaccamento disorganizzato

Infine, l'attaccamento disorganizzato, descritto successivamente da Main e Solomon, si osserva quando la figura di riferimento è al tempo stesso fonte di sicurezza e di paura — come nei casi di maltrattamento, trascuratezza o forte imprevedibilità. Il bambino vive un conflitto insolubile: vuole avvicinarsi, ma l'altro è anche ciò da cui deve difendersi. Da adulti, questo si traduce in relazioni caotiche, altalenanti, dove il bisogno di vicinanza si alterna a reazioni di fuga o di rabbia. È come se la persona non sapesse più quale linguaggio usare per stare in relazione.

Modelli interiorizzati e profezie che si autoavverano

Questi modelli che sto riportando non hanno l'obiettivo di rappresentare delle etichette rigide, tutt'al più descrivono sinteticamente quelle tracce profonde e antiche che continuano a guidarci nelle relazioni, anche in età adulta. L'attaccamento diventa infatti parte integrante del nostro modo di percepire noi stessi e gli altri, delle nostre scelte, del nostro modo di amare e di reagire alla distanza.

Un esempio semplice: una persona con attaccamento ansioso, quando il partner non risponde subito a un messaggio, potrebbe sentirsi invasa da pensieri catastrofici — "non mi vuole più", "sto per essere lasciato" — e iniziare a inviare una raffica di altri messaggi per riottenere attenzione, in questo caso vediamo come l'allerta trovi un canale nell'agito. L'altro, se tende a un attaccamento evitante, potrà percepire questa insistenza come una minaccia alla propria libertà, reagendo con chiusura o silenzio. E così, paradossalmente, ciascuno finisce per confermare le paure dell'altro: una danza perfettamente coreografata dalle esperienze emotive di un tempo, guidata perlopiù in modo inconscio e sostenuta dalla profezia che si autoavvera.

Oppure pensiamo a una persona con attaccamento evitante che, pur desiderando una relazione stabile, si ritrova a scegliere partner emotivamente distanti, perché quel tipo di distanza è familiare, prevedibile e in qualche modo "sicura". È come se il sistema interno cercasse coerenza più che felicità. Ciò che è conosciuto, anche se doloroso, appare più rassicurante del nuovo: mi trovo spesso a riportare questa distinzione tra zona di comfort e zona conosciuta.

Nel corso della vita queste modalità di attaccamento tendono a stabilizzarsi, si intrecciano con la nostra storia evolutiva formando così il modo in cui pensiamo e sentiamo. Diventano parte del nostro stile di personalità e della nostra identità relazionale, certo, ma questo non indica che siano immutabili.

Il ruolo della terapia nella trasformazione dell’attaccamento

La buona notizia è che l'attaccamento può essere rivisto, riparato e rinegoziato, soprattutto all'interno delle relazioni significative; tra queste, la relazione terapeutica occupa un posto privilegiato. In terapia è proprio il legame tra paziente e terapeuta a diventare un terreno vivo in cui le antiche paure possono riaffiorare, ma anche essere trasformate. Quando una persona sperimenta un rapporto stabile, coerente e accogliente (dove non viene giudicata per le sue reazioni, dove può essere vista e accolta nella sua vulnerabilità), si apre una nuova possibilità: quella di vivere un'esperienza emotiva correttiva. È come se, con la relazione, (accanto a tante altre competenze) si potesse riscrivere una parte della propria storia affettiva. Il modo in cui questo accade richiederebbe un approfondimento a parte.

Bowlby stesso sottolineava che la capacità di formare legami sicuri non si esaurisce nell'infanzia; al contrario, può rinnovarsi ogni volta che viviamo una relazione significativa. In questo senso, il lavoro terapeutico diventa una sorta di laboratorio relazionale, un luogo in cui sperimentare la sicurezza che forse non è stata possibile prima. Quando la persona inizia a sentire che può fidarsi, che può mostrare le proprie emozioni senza essere rifiutata, allora qualcosa dentro di sé si riorganizza. Si costruisce, passo dopo passo, un nuovo modello interno: quello di un Sé capace di affidarsi, di tollerare la distanza, di amare senza perdersi.

Conclusione: Conoscersi come atto di libertà

Ho sempre trovato paradossale come si possa attraversare la vita inconsapevoli dei propri modelli di attaccamento, guidati perlopiù da dinamiche inconsce, chiedendosi di continuo perché ci si senta o ci si muova in un certo modo. È proprio per questo che la psicoterapia assume un valore centrale: conoscersi diventa un atto di libertà, un modo per rendere visibile ciò che ci guida nel profondo e scegliere finalmente come vogliamo vivere e relazionarci.

PUBBLICITÀ

Scritto da

Dott. Russo Riccardo

Bibliografia

  • Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento. Cortina Editore.
  • Ainsworth, M. D. S. et al. (1978). Patterns of Attachment: A Psychological Study of the Strange Situation. Erlbaum.

Lascia un commento

PUBBLICITÀ

ultimi articoli su crescita personale

PUBBLICITÀ