Le etichette sono per i vestiti, non per le persone

La preparazione clinica non si basa solo sulle evidenze ma anche sulla capacità di scegliere le parole, i modi, i tempi più appropriati per comunicarle, condividerle.

13 OTT 2020 · Tempo di lettura: min.
Le etichette sono per i vestiti, non per le persone

Quando si attribuisce una diagnosi, che sia di morbillo o di depressione, è necessario tenere a mente chi sia il destinatario a cui comunicare tale informazione. Quando, ad esempio, i genitori di un ragazzo diciassettenne che seguo, vennero a sapere che a questi era stato diagnosticato un "disturbo d'apprendimento" associato ad un "lieve ritardo cognitivo" le cose per tutta la famiglia cominciarono a cambiare drasticamente quanto drammaticamente. A essere sconvolti furono anzitutto il padre e la madre - probabilmente più del ragazzo - i quali mi raccontarono di essersi trovati, da un giorno all'altro, con qualcosa di cui non sapevano e non riuscivano a fare i conti. Lamentavano, senza accorgersene e del tutto inconsapevolmente, di una difficoltà che nessuno accolse, riuscì a capire e provò a rendere più agibile e comprensibile ai membri della famiglia.

Ogni malattia, così come ogni diagnosi minacciosa, non intellegibile, non elaborata, modifica la nostra vita psichica, la nostra rete di relazioni amicali, parentali, sentimentali e più in generale identitarie. Per questi motivi, ogni medico, che sia cardiologo, oncologo o psicologo deve rivelarla tenendo a mente che la preparazione clinica non si basa solo sulle evidenze ma anche sulla capacità di scegliere le parole, i modi, i tempi più appropriati per comunicarle, condividerle. Ogni medico deve conoscere e ri-conoscere le eventuali implicazioni di queste variabili, la loro specificità e le loro conseguenze dacché la sua professionalità non può e non deve mai distaccarsi dalla sua umanità.

Ogni diagnosi, a cui sottende una malattia, implica una (a) ridefinizione e un (b) cambiamento della propria soggettivitànonché la (c) ricerca di forme nuove di adattamento. Per tali ragioni l'Io di ognuno di noi s'affida normalmente ai meccanismi di difesa: il principale strumento con cui si gestiscono, tanto nel bene quanto nel male, gli accadimenti della vita; dagli avvenimenti più sani e creativi a quelli più stressanti, tesi, negativi e dolorosi.

I meccanismi di difesa tuttavia posso trarre in inganno. Essi non sono tipici di una personalità disadattata - "sulla difensiva" per l'appunto - ma fenomeni che hanno funzioni positive, capaci di farci agire nel corso della vita in modo sano, autentico, continuativo e adattativo. Essi, come ricorda Vittorio Lingiardi, possono essere disposti lungo una scala di maturità, consapevolezza ed elasticità:

  • Quelli che consentono di gestire al meglio gli eventi stressanti sono chiamati di "alto livello" e permettono di gestire un equilibrio tra i motivi del conflitto, la cui intensità e gravità, altrimenti, genererebbe esperienze disorganizzanti l'intera identità;
  • I meccanismi di difesa che fanno capo alle "formazioni di compromesso" sono quelli in cui la persona tende a escludere qualcosa che sa potrebbe costituire una minaccia per il proprio equilibrio psichico. La persona così riesce a mantenere intatti gli aspetti cognitivi della malattia inibendo però quelli affettivi che potrebbero farla soffrire;
  • Le "difese del disconoscimento", ad un livello meno adattativo, sono quelle che permettono alla persona di negare la presenza "in toto" di un evento spiacevole e minaccioso per cui, anziché adattare sé stessi alla realtà, avviene patologicamente il contrario per cui è la realtà che deve sottostare a loro;
  • Al livello meno maturo vi si trovano le "difese dell'acting" il cui termine inglese tradotto in italiano "agire", rende bene di quanto chi le utilizza sostituisce ogni forma di pensiero con l'azione senza considerarne le conseguenze personali e sociali;

I genitori del mio paziente, loro malgrado, si trovarono ad utilizzare meccanismi di difesa il cui disconoscimento di quanto succedeva al figlio era necessario per non "impazzire" e quindi per "farsene una ragione". La madre, ad esempio, dal momento della diagnosi ha cominciato a mostrare un'attenzione spasmodica verso tutte le attività scolastiche del figlio fino ad annullare se stessa e conseguentemente, quasi magicamente, ciò che le era stato comunicato a proposito di questi. Più grave invece è quanto è successo al padre, il quale credeva che l'azienda di cui è titolare sarebbe poi stata gestita dal figlio, quando lui sarebbe andato in pensione. Appreso della malattia del figlio, s'è trovato a disinvestire su tutti i "progetti" che aveva in mente per lui, riportando sul corpo i "segni" del dolore che provava poiché impossibilitato a pensare "razionalmente" che il figlio avesse deluso le proiezioni di cui il padre lo aveva caricato.

Concludendo, vorrei riportare, un pensiero del filosofo Pascal, che ben si presta a comprendere quanto importante siainformare il malato (e i suoi familiari) consentendogli tuttavia di dosare aspettative, speranze e illusioni.

[...] Non basta affermare cose vere; è altrettanto necessario non dire tutte quelle cose che sono vere; perché bisogna esprimere soltanto le cose che sia utile manifestare, e non quelle che ferirebbero soltanto senza portare alcun frutto; e perciò come la prima regola è 'parlare con verità', così la seconda regola è 'parlare con discrezione' ".

 

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Scritto da

Dott. Aldo Monaco

Bibliografia

  • Gabbard G. O. Psichiatria psicodinamica, quinta edizione basata sul DSM-5, Raffaello Cortina Editore, 2015
  • Galimberti U. (2007) Psicologia, Garzanti, Milano
  • Laplanche e Pontalis (1967) Enciclopedia della psicoanalisi, vol. II, Laterza, 2010
  • Lingiardi V. Diagnosi e destino, Einaudi, Torino, 2018
  • McWilliams N. La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio Editore, Roma, 2012
  • Pascal B. Le provinciali, Einaudi, Torino, 1972

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