L'atto in psicanalisi

Nell’intervento cercherò di mettere a fuoco due elementi dell’atto analitico.

6 SET 2016 · Tempo di lettura: min.
L'atto in psicanalisi

Il primo riguarda l'enunciazione di un qualcosa che da effetti di taglio, che determina cioè un interruzione della scrittura in cui il soggetto è coinvolto, per aprire a una diversa significazione, ad una revisione del giudizio. Il secondo punta alla condizione che favorisce questo evento di parola: un movimento che, ne più ne meno, coinvolge l'umanità dell'analista.

Cos'è l'enunciazione che ha effetti analitici e quali sono le sue condizioni?

La persona che viene in analisi è aperta a due destini: uno che la trascina in un movimento di riscrittura della traccia, si può dire, passivamente: un movimento in cui il corpo pulsionale opera per ritrovare intatte, identiche, le tracce che accompagnano gli esordi della vita – ricerca di quell'identità di percezione freudiana che sarebbe un primo modo di legare con la pulsione di morte, all'interno dell'economia del piacere - e che costituisce il fenomeno della ripetizione (una restituzione inintegro della traccia). Quando si dice che ogni nevrosi sostiene un impossibile, si afferma proprio questo: una ricerca stravolta di suturare una ferita nell'altro e di conseguenza in noi - spesso pensata dal soggetto come "il proprio carattere" di cui sconta la coercizione nei termini di destino a cui è assegnato - che ci ricaccia continuamente sulle solite piste (piste che tuttavia sono la fortuna dell'analista). Ciò che è stato, per intenderci, rimane tale, mutano solo le innumerevoli forme con cui un'esistenza rispetta fedelmente il mandato della copia.

Tale movimento di ripetizione può essere ripreso e affiancato da un altro movimento, che può essere colto nell'azione delricordareche riguarda più la restituzione a ciò che è avvenuto, ad un certo tempo, della sua possibilità di non essere o di essere altrimenti.

Il ricordo restituisce possibilità al passato, rendendo incompiuto l'avvenuto e compiuto ciò che non è stato. Il ricordo non è né l'avvenuto, né l'inavvenuto, ma il loro potenziamento, il loro ridiventare possibili. [1]

Eccoci introdotti al secondo destino, il quale concerne appunto la possibilità di poter interrompere quel movimento (di ripetizione), ri-affermando la traccia di lato, affianco, accompagnandola: accompagnando cioè il proprio caratterecuisiamo irreparabilmente assegnati.

Per carattere intendo letteralmente il signum, l'insieme delle tracce, di quei segni dell'incontro con l'Altro, che ci ha sfiorato con la sua assenza e che nella testimonianza della traccia si traduce due volte: in ciò che è testimoniato e in ciò che rimane non testimoniabile, facendo dell'assenza assoluta un non vissuto, un non detto in modo da aprire - fortuna nostra, la seconda! - una chance nel campo del dire.

Ed è precisamente su questa fortuna che si gioca l'atto analitico, sul tesoretto che ci porta in dote la parola dell'analizzante. Qui si gioca la partita dell'analista come oggetto piccolo a, che passa dall'essere oggetto che polarizza il desiderio dell'analizzante, alla posizione di oggetto scarto, che con il suo dire si pone fuori contesto rispetto alle produzioni verbali dell'analizzante, fuori scena, istallando la propria tenda nel campo di quel non detto.

Siamo dall'analista dunque, e più da vicino alla questione dell'atto che gli è propria. Come si dà questo passaggio in seno all'oggetto piccolo a? Che sembra raccogliere le allusioni del soggetto a ciò che è in lui ancora possibile come meraviglia ma rispetto alle quali l'analista, nello stesso tempo, non si fa trovare come destinatario - sebbene, da sempre, la lettera, sia in viaggio verso di lui.

Mi rifaccio ad un articolo di Moreno Manghi sull'atto analitico:

L'atto psicoanalitico – che è un enunciazione, ma non l'enunciazione di un interpretazione -consiste nel far insorgere "qui e ora" il desiderio, ovvero nel realizzarlo. È ciò che chiamo castrazione - la separazione del soggetto dalla sua presa nel significante - atto erotico che impegna il corpo dell'analista a restituire all'analizzante il suo corpo.[2]

Un atto che non riguarda il bene dell'analizzante, ma il suo eros. È un atto che strappa il desiderio dalla cattura del significante per riconsegnarlo al suo legittimo proprietario.

L'impegno dell'analista dovrebbe procedere sotto la buona stella di un imperativo, di un va! - non leggere più, non guardare più, va! Quel va non è da leggere in un va contro, come un erezione di sapere contro il sapere dell'analizzante, ma incontro; incontro al testo dell'analizzante che sarà inevitabilmente coinvolto in una traduzione da parte dell'analista, il quale cercherà di rimetterlo in moto nella propria lingua, di aprirlo a nuove significazioni. Ma come ci si può attrezzare contro il pericolo di una traduzione che sia invece "un rifare l'analizzante con i significanti dell'analista"?

Com'è possibile questa processione verso il testo di una seduta che non sia infettato da alcun esercizio di potere, che sembra avere qualche chance, solo se l'analista si riduce a qualcosa poco oltre il niente, poco più che un movimento? Com'è possibile una traduzione che accolga il testo nella propria lingua, mettendola in moto, dicendolo altrimenti, nel rispetto però del cuore che quel testo nominava. Nel rispetto dell'analizzante.

Conviene andare nei pressi di Lacan.

È possibile se l'enunciazione è enunciazione di qualcosa che non si sa di sapere ed è pronunciata dal luogo di un'intima esposizione - se vogliamo appoggiarci alla lezione dei poeti - in quel luogo inaugurato dal passaggio da oggetto del desiderio a oggetto scarto, in cui una nudità immediatamente ri-velata (dall'enunciazione) trova scoperto il corpo dell'analizzante, il quale è costretto a ri-assumerlo,a tornare a farlo girare, una volta revocate le sue identificazioni. È un'enunciazione che punta all'origine, in quanto, come ogni interruzione che si conviene, fa emergere un nuovo intreccio.

L'analista procede verso l'atto mediante la revoca di ogni come se (stessi affermando il vero), nella revoca cioè di ogni rapporto speculare con il sapere, nell'azzeramento di ogni distanza da esso, che lo porrebbe in una condizione illusoria di padronanza, per assimilarvisi invece totalmente, nella forma del non sapere, del non ne voglio sapere, e ponendosi nella condizione di servirsi di questo non sapere attraverso l'enunciazione. Parlo proprio e perché interdetto. L'analizzante, dal canto suo, si troverà impegnato in un corpo a corpo con questa enunciazione, cioè con il desiderio dell'analista – che si articola su questo interdetto – il quale lo chiamerà, per effetto della revoca di ogni altra chiamata immaginaria a parlare per la prima volta, a partire dall'arbitrarietà di ciò che l'analista dice e per il fatto che ciò che dice lo riguarda.

Ciò che dice lo riguarda, l'enunciazione è una chiamata. Ma di che ordine? Essa è una chiamata di nulla o se vogliamo, avvicinandosi di più alla clinica, una chiamata della chiamata, delle chiamate (immaginarie) che regola per un momento tutti i conti con le sue pretese identitarie e le sue proprietà. L'atto analitico afferra quel passaggio, quel transito, quel significante e nel farlo, nell'isolarlo, nel domandare su di esso, nell'affermarlo, lo porta a compimento. Revoca da cima a fondo quella vocazione che, in taluni casi, viene espressa a chiare lettere dagli analizzanti: che ci possa fare? È il mio carattere, sono destinato a questo.

Ben inteso non si tratta assolutamente di sostituire una chiamata più vera a una meno autentica, quindi un esercizio di potere di cui si diceva prima, e poi in nome di cosa si deciderebbe per l'una piuttosto che per l'altra? Si tratta di inserireun come non: può essere così come non così. Ne risulta una tensione del discorso con se stesso - senza che si aggiunga alcun supplemento di sapere – una specie di torsione sul posto che restituisce ad un certo tempo, ad un già avvenuto, la sua potenza di non essere, la sua piena potenzialità e dunque la possibilità di risignificarsi altrimenti, di poter ri-determinarsi in questo o quello- qui forse si gioca la promozione di un etica nel soggetto, intesa come il confronto, in ogni scelta, con la castrazione che la concerne, in quel esercizio libero della libertà che Freud sembrava indicare come fine di una analisi.

L'inaspettato ricordo da cui è colto l'analizzante non è forse testimonianza di questo movimento, l'esito di una specie di torsione che lega il già da sempre, un passato assoluto (l'assenza originaria) al non ancora e che costituisce secondo Derrida la "torsione originaria del tempo all'interno del quale il passato assoluto vira immediatamente nella follia della promessa e follia della memoria.."[3]. Il ricordo, in questo caso forse, è la figura che qualcosa assume quando ha fatto il suo tempo.

Ma com'è possibile che tale passato assoluto, presenza mai data, possa disporsi a un non ancora, presenza che ci viene dal futuro? In parole più semplici, com'è possibile dire dell'inconscio?

Una risposta è per ora superiore alle mie forze ma rischiando e riprendendo le caratteristiche dell'atto analitico dette fin ora, è forse possibile dire che esse potrebbero servire da supporto di memoria, da perno di questa torsione, favorendo nella ripresa di quel significante - in qualsiasi forma vogliate - in una sua elevazione nel punto massimo di oscurità, poco prima che albeggi, sospeso nella sua condizione d'inverificabilità - perché gli rifiutiamo di essere quel qualcosa (che è da sempre) per l'analizzante - e nella sospensione, aprirlo ad una nuova verifica, ad una nuova messa in intreccio.

Questa nuova messa in intreccio che potremmo anche definire una revisione del giudizio e che sta al cuore dell'esperienza analitica, muove proprio da questa regione di indifferenza fra essere e non essere.

Agamben afferma:

La volontà è (come l'inconscio freudiano con la sua costitutiva ambivalenza) la sola sfera sottratta al principio di contraddizione.

Qui ci parla del desiderio. Il movimento che ho descritto prima è condizione per il recupero del desiderio soggettivo, libero di determinarsi in questo o quello, rientrando certo, nel suo passaggio all'atto, sotto il dominio del Logos, ma in una forma inedita.

"Un essere, che può essere e, insieme, non essere, si chiama, in filosofia prima, contingente".[4]

Possiamo, questo contingente, in psicanalisi, chiamarlo Reale? La psicanalisi tocca il reale? Direi di si. Ed il contingente può darsi nella forma di un ricordo di ciò che non è stato. Si parla di ricordo, dunque di un nuovo intreccio.

Gli elementi una volta scomposti, si riaggregano da se, diceva Freud.

L'analista con il suo atto dovrebbe favorire il tempo di questo lutto - in cui qualcosa di quella perdita da cui siamo segnati va effettivamente perso per tornare a essere di nuovo memorabile - ma per farlo dovrebbe egli stesso non resistere a quel sapere che egli ignora e che si produce in lui, questo, forse, intendeva Freud, con il disporsi a che la nostra attenzione sia ugualmente fluttuante (dunque libera ma rispondente alla legge dell'uguale, dell'esser qui come là) e, favorito dalla posizione in cui l'ha posto l'analizzante, edificare il luogo di una finzione in cui è possibile recuperare la propria storia individuale, la propria singolarità, il carattere cui da sempre siamo assegnati.

L'atto analitico non può prodursi, quindi, che in un transfert. L'enunciazione può avere il suo effetto di taglio per il semplice fatto che viene enunciata dal luogo della verità - che l'analista non crede tale, per effetto della sua analisi - ma dal quale egli si pronuncia. L'atto funziona - in queste specifiche condizioni - per il semplice fatto di essere posti in relazione con l'analista. Ciò che conta è quindi che egli enunci e non il contenuto dell'enunciazione. Dunque si può dir tutto basta che ci sia un transfert per garantire la resa di ciò che dico?

No, perché come si diceva, l'atto impegna il corpo dell'analista. Va da un corpo a un altro corpo: si fa con il corpo dell'analizzante, con i suoi significanti.

È un addivenire a quel luogo di luce che è Es come luogo d'essere - per usare la celebre enunciazione freudiana - incontro a esso, che da tempo immemore "tenebra" fin là; dopo che ha parlato, per primo e fino in fondo, che ha esaurito il suo tempo, il tempo di un apertura, a cui sopravvive (oltre la morte e la vita) un ulteriore apertura, un tempo che resta, il tempo del dire, il quale è lavorato continuamente dall'interno dall'Es, che dunque, in questo, si costituisce come una possibilità costante di avvenire e non qualcosa da cui difendersi.


[1] G. Agamben, Barleby o della contingenza, Quodlibet, Macerata 1993, cit., p. 83

[2] Moreno Manghi, L'atto psicanalitico interpreta il desiderio o lo crea?

[3] J. Derrida, Memorie per Paul de Man, Jaca Book, Milano 2005

[4] G. Agamben, Barleby o della contingenza, Quodlibet, Macerata 1993, cit., p. 74

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Scritto da

Dr. Nicola Mariotti

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