La signora senza destino

Storia di un essere umano invischiato nel profondo di se stesso. Pochi passi che cercano di riportare la sua esperienza e la sua vita così come mi si è palesata.

20 SET 2016 · Tempo di lettura: min.
La signora senza destino

Venerdì 17 dicembre 2010.

Appena arrivato, a bruciapelo il Dr. mi comunicò che avrei avuto un colloquio con una paziente "interessante". Non volle comunicarmi nulla a riguardo. Avrei dovuto indagare autonomamente.

Arrivò la signora, andatura lenta ma inesorabile. Tentò subito di agganciare il Dr. Lui era però pronto a schivarla: la deviò su di me.

Dr.: "Buongiorno signora. Come va?"

Lei, lentamente: "Bene, grazie.". Non sembrava.

Dr.: "Oggi può parlare con il dottore. Le può raccontare tutto. Se vuole. Arrivederci.".

Lei: "Grazie. Arrivederci". All'espressione del viso bisognoso di altro dopo questo abbandono il Dr. aggiunse allontanandosi: "Dall'inizio…". Collocandomi di fatto nella sua storia a pieno diritto. Formale.

Trovammo una stanza dove iniziare il colloquio. C'erano due sedie poste agli estremi del lato lungo di un angusto banchetto appoggiato alla parete. Con parte della schiena appoggiata al muro e parte allo schienale della sedia, i nostri corpi si fronteggiavano a quarantacinque gradi acuti. Con un separatore avrebbe saputo di sacrestia. Provai a tranquillizzare la signora riaffermando la sua completa libertà nel parlare.

Con tanto di crocefisso sopra di noi: "Mi dica signora …".

Lei: "Devo parlare?"

Io: "Se vuole sì, signora".

Lei: "Dall'inizio?"

Io: "Si signora. Da qualsiasi punto sia per lei l'inizio"

Lei: "Ah … bene" disse soddisfatta. Quindi pianse.

Un minuto.

Si asciugava le lacrime con un fazzoletto usato, pronto all'uso. Balenò in me l'intuizione che non sarebbe stata una passeggiata. Neanche per lei.

Il racconto iniziò da quando venne lasciata in collegio con le altre tre sorelle alla morte della madre. Forse. E ricominciò il pianto. E poi.

"…tre, tre, tre." Mi spiegò che intendeva che erano tre sorelle e che dalla più piccola passavano tre anni e così da lei alla più grande. Tre, tre, tre.

La madre stava male, ricoverata da tempo in ospedale. Non capii mai bene di cosa soffrisse e del motivo del ricovero. Alla sua scomparsa il padre si fece subito una nuova vita. La nuova madre che "Non la chiamo matrigna perché è dispregiativo", in realtà ne aveva tutti i titoli vista la sua determinante funzione nel farle chiudere in collegio e praticamente mai più entrare in casa. Anche il figlio nato dalla nuova unione non era un "fratellastro" per lo stesso motivo. "Gli volevo bene" per poi aggiungere poco dopo che non lo aveva mai realmente conosciuto.

Uscì dal collegio a tredici anni. Andò a lavorare a Marsala, Sicilia, come bambinaia assieme alle due sorelle. La più grande faceva la cameriera, lei guardava i bambini della casa come la sorella più piccola. Dopo due anni si ripresentò la stessa occasione a Roma. Andarono anche perché, come detto precedentemente, la casa paterna gli era ormai interdetta. La distribuzione delle mansioni era la medesima. Inserita in una comunità di emigrati sardi, conobbe un ragazzo, fratello di una sua amica sempre cameriera presso famiglie romane. Lo incontrava nelle otto ore settimanali di libertà che aveva suddivise equamente tra il giovedì e la domenica. Era più grande di sei anni e lavorava presso un ambasciatore come autista e tuttofare.

A dieciassette anni rimase incinta. Non poteva riconoscere il bambino come minore. Il ragazzo nicchiava. Nascose tutto alla famiglia per evitare problemi ancora più grandi. Di onore probabilmente. Alla nascita del bambino dovette resistere all'assalto delle assistenti sociali che volevano convincerla a darlo in adozione essendo lei ragazza madre. Le rimase di andare al brefotrofio, dove visse per nove mesi. Quindi riuscì ad uscire. E finalmente a sposarsi.

Ma li iniziarono i problemi. Veri.

Il marito le trovò lavoro dall'ambasciatore. Ma non era più il suo uomo: "… era diventato un libertino …" invece di occuparsi di lei e del bambino.

Non sapeva se l'aveva mai amato. Ma ormai voleva fare famiglia. Non ne aveva conosciuti altri. Il cuore non aveva mai battuto forte. Sembrava avesse dovuto. Non aveva la forza di poter immaginare una vita diversa da quella che aveva avuto. Figurarsi un destino diverso.

Tra altri pregi, era anche diventato violento con il passare degli anni.

La picchiava e picchiava il figlio quando non poteva sfogarsi completamente su di lei. La figlia divenne anoressica causa l'abbandono del padre. Indicativamente nell'ottantanove. Voleva provare a farsi una nuova vita, si sentiva ancora giovane diceva, l'ex marito.

Mi raccontò di aver vissuto un grande trauma alla separazione. "Così improvviso …" da lei descritto. Tentai di pensare qualcosa. Ma i risultati erano scarni. Dalla separazione del marito in poi tentò due volte il suicidio per assunzione di Tavor. La seconda volta assumendo cento pastiglie. Ma nuovamente con scarsi risultati.

"Presi le pastiglie, mi misi a letto. E la mattina mia figlia mi trovò nel letto e chiamarono l'ambulanza … mi svegliai in ospedale però senza le flebo dell'altro ricovero. Poi andai a casa …" così, semplicemente. Era una storia con la quale avrei imparato a convivere.

Al termine.

Io: "La prossima volta se vuole, signora, parleremo un po' più di lei…".

La signora sorpresa: "Ah si … e che dico? Ho finito".

Ed Io: "Vedrà che verrà fuori dell'altro…".

Mi guardò tra il perplesso e il bisognoso.

"Arrivederci".

"Arrivederci".

Poco professionale, ma avevo sonno, sì. Facevo fatica a non sbadigliare. Avevo accorciato l'incontro a quarantacinque minuti. Ero coperto: asetticamente psicoanalitico. Minimo sindacale.

Incontrai il Dr.: "Tutto bene?"

Io: "Si …" cercando qualcosa di interessante da dire mentre mi stropicciavo gli occhi furtivamente.

Dr.: "Interessante vero?"

Io: "Si si!!".

Sbadiglio.

Non capii cosa potesse esserci di interessante nel racconto stereotipato della signora. Individuai la causa inizialmente nella mia difficoltà penetrativa, nella mia incapacità di comprensione. Il torpore contro - transferale aveva avuto il sopravvento.

La stereotipia era importante, molto importante. Interessante per l'esattezza.

Venerdì 24 dicembre.

La malattia mentale. Come il diciassette. Però in più aggiunse en passant:

"Ma gliel'ho detto l'altra volta che non ho conosciuto mia madre e l'unico ricordo che ho di lei è una foto?"

Io: "No …".

E poi: "E che mia madre ha incominciato a sentirsi male dopo la nascita della sorellina minore che in realtà è una gemella di un fratellino nato morto?"

Io: "No …".

E ancora: "… e che in realtà era stata ricoverata, forse, in uno di quei posti dove va la gente esaurita, ed è morta, dicono di broncopolmonite?"

Io: "No … no …".

Continua!

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Scritto da

Dott. Simone Nifosi

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