La realtà è una cosa semplice?

La realtà è una cosa semplice?

11 MAR 2020 · Tempo di lettura: min.
La realtà è una cosa semplice?

La realtà è una cosa semplice?

Parafrasando una nota canzone di Tiziano Ferro nel cui testo si afferma che "l'amore è una cosa semplice" , a mio avviso idealizzando l'idea di amore come se potesse il sentimento essere separato dagli oggetti di investimento e dalle loro risposte emotive, "la realtà è una cosa semplice"?

La realtà sappiamo essere duplice: soggettiva e oggettiva. Una realtà interpretata sulla base di quello che Kohut definisce "il programma nucleare" e una realtà percepita ma anch'essa interpretata dal nostro cervello. La realtà interpretata può collimare con quella percepita oppure divergere. Nella condivisione sociale della stessa realtà è indispensabile essere d'accordo sul mondo percettivo in cui nasciamo e verso cui agiamo altrimenti non potremmo comunicare né a livello di percezione né a livello di bisogni profondi.

Proviamo a riflettere un attimo su cosa accadrebbe se una giovane mamma percepisse i colori, la temperatura, vivesse le distanze in modo divergente dal resto della comunità in cui è inserita. Come potrebbe trasmettere al figlio neonato, in crescita e avido di informazioni provenienti dall'ambiente ma inizialmente filtrati dal comportamento materno, un senso di sicurezza, di protezione che gli permetta successivamente di esplorare l'ambiente per lui più familiare per poi "incamminarsi" lungo i sentieri della vita?

Mi riferisco di proposito a sentieri e non a strade. La differenza risiede proprio nel senso del concetto di realtà. Le strade forniscono una immagine di opportunità che possono andare anche oltre le proprie possibilità e possono terrorizzare l'individuo così come spingerlo a raggiungere obiettivi personalistici che lo separano dal senso comune sviluppando il proprio stile di vita in una direzione che ne limita le potenzialità. Così può accadere che un uomo di potere, uno scienziato nobel, uno scrittore rivoluzionario, una attore famoso, un uomo di fede possa aver incompiuta la realizzazione dei rapporti di famiglia, di amicizia, di amore. Non per questo però questi individui di successo si sentiranno incompleti. Potrebbero ancora interpretare la loro vita come del tutto appagante e potrebbero credere nel loro percorso di vita.

Questo perché l'interpretazione soggettiva che fornisce il senso di sé e che orienta il nostro stile di vita seguendo l'obiettivo inconscio che ci guida prevale sulla necessaria comprensione dell'altro e rispetto reciproco indispensabili per una società che possa sopravvivere a se stessa. Inoltre la spinta narcisistica a gratificare se stessi è alla base dello sviluppo umano ma deve ontologicamente evolversi intrecciandosi con il senso di cooperazione altrimenti la struttura sociale diviene fragile.

Seguire "il sentiero della vita" significa allora rimanere in contatto con gli altri differenti da sé sulla base di obiettivi più facilmente condivisi e seguendo aspirazioni personali realizzando di avere davanti a se un percorso fatto di difficoltà. I sentieri possono semplificare il percorso ma non sono strade aperte prive di asperità.

Pertanto il semplificare la realtà percepita, che è il compito del nostro cervello per permetterci di affrontarla all'interno di una percezione comune, e il semplificare la realtà interpretata, che è il compito del nostro Sé per permetterci di fornire un senso al nostro stile di vita, sono processi complessi che vengono complicati da eventuali disturbi organici e mentali.

In situazioni di equilibrio biopsicosociale i sentimenti possono però spostare l'asse del sempre temporaneo senso di realizzazione personale ( il senso di inadeguatezza e di inferiorità sono il motore che da energia alle nostre conquiste e sconfitte personali e quindi non possono essere risolti) verso la gratificazione del Sé grandioso kohutiano o verso la sua frustrazione. È nella frustrazione che il Sé grandioso mira all'onnipotenza "irrigidendosi" e regredendo a un Sé narcisistico infantile che può, come direbbe la Klein, fissarsi in una posizione depressivo-paranoide.

Da adleriano non ritengo si possa parlare di fissazioni nel senso psicoanalitico più stretto ma penso che quando la percezione della realtà viene soggettivata dalla nostra personale interpretazione e quest'ultima perde la sua caratteristica di "come se" divenendo oggetto percepito si possa regredire ad uno stato anche psicotico che potrebbe fissarsi, cioè cronicizzarsi.

A questo punto possiamo ancora dire che "la realtà è una cosa semplice"? Il rapporto tra i due piani di realtà ( soggettiva e oggettiva) rende la semplificazione della realtà come un processo complesso ma che appare automatico sino a quando qualcosa non va storto e si verificano scompensi. Allora percepiremo chiaramente la difficoltà nel funzionare nel nostro percorso di vita. Lo percepiremo chiaramente solo allora ma anche quando compensiamo le nostre fragilità con sicurezza, realizzazione personale, affetti, possiamo sentire uno elemento di insoddisfazione dentro di noi. Quel senso di incompiutezza che può divenire spinta verso un comportamento coraggioso ( nel senso di spingersi oltre i propri preconcetti) è probabilmente il nostro principio di realtà. Il confronto con la realtà ci conserva incompiuti, frustra in modo evolutivo e adattivo il nostro nucleo narcisistico permettendogli di integrarla nel suo compimento più maturo.

L'amore è un sentimento che sicuramente si lega anche a sentimenti di incompiutezza, inferiorità, di realizzazione personale, così come a idee di idealizzazione ma anche di svalorizzazione e banalizzazione.

L'amore è un sentimento "destinato" a mettere in contatto l'incompiutezza degli individui, il senso di sé da cui si origina come compenso, gli schematismi, le teorie implicite, le interpretazioni della realtà condivisa. Le interpretazioni personali se sono molto simili possono oggettivare la realtà comune.

L'amore come sentimento legato alla condivisione di una realtà soggettiva oggettivata da esperienze condivise diviene sofferenza al momento della perdita dell'oggetto d'amore che è stato precedentemente almeno parzialmente assimilato nel Sé. Se poi precedentemente l'oggetto altro da sé è stato inglobato completamente e non assimilato ma fuso, allora la separazione diviene perdita di sé con possibili momenti di scompenso aggressivo-depressivo.

Allora possiamo continuare a cantare "l'amore è una cosa semplice"? Certo che si. Ma lo è davvero semplice? Lo è per quanto desideriamo che possa esserlo ascoltando un sentimento estremamente intenso nella fase di innamoramento in cui in fondo l'altro viene idealizzato riportandolo nei propri schemi di preferenza. Amiamo in tale fase l'oggetto come lo vorremmo invece di come è, e come lo vorremmo diviene la nostra realtà. Ma sappiamo che la realtà è complessa nel sul divenire semplice in quanto diretta a conservare il senso di incompiutezza all'interno di conquiste sociali e personali. È il paradosso della vita e i paradossi complicano il nostro bisogno di semplificazione.

In questo modo tendiamo a creare un senso di sé e del noi che deve essere coerente col nostro stile di vita e con l'organizzazione della nostra personalità e cerchiamo di conservare tale coerenza attraverso sovrastrutture, compensi anche socialmente inutili, finzioni e maschere atti a fornirci un senso di potenza e a volte di prevaricazione. Nel tentativo di semplificarci la vita applichiamo schematismi e preconcetti che complicano molto il rapporto con noi stessi e l'altro. Diveniamo "giocolieri di sentimenti" in equilibrio su un filo di sicurezza a molti piani da terra (la realtà dei nostri limiti). A volte sappiamo con cosa ci giostriamo e a volte siamo ingannati dalle nostre certezze.

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Scritto da

Dott.re Lorenzetto Claudio

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