La fotografia come evocatore della narrazione

Tratto dall'articolo "Le immagini: una nuova via narrativa alla percezione di sé" Rossi O., Rubechini S., INformazione Psicoterapia counseling Fenomenologia, vol.4, 2004.

17 NOV 2014 · Tempo di lettura: min.

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La fotografia come evocatore della narrazione

Le operazioni narrative possono realizzarsi attraverso diversi canali comunicativi e trovare espressione per mezzo di differenti linguaggi.

All'interno del setting terapeutico, tradizionalmente, la comunicazione verbale ha rivestito un ruolo essenziale. Esistono, tuttavia, altri interventi che consentono di lavorare, dare forma e azione, al contenuto narrativo che il cliente porta in terapia.

Tra questi, la fotografia rappresenta senz'altro una via di accesso privilegiata alle narrazioni del cliente e questo perché in grado di essere, allo stesso tempo, mezzo espressivo e linguaggio specifico dotato di un proprio codice.

Le foto rappresentano sempre il risultato di un momento percettivo in quanto metafora del modo che il cliente ha di percepire il mondo: del suo modo di essere, di relazionarsi, di vedere quello che gli è intorno (ciò che il mondo crede si aspetti da lui, ciò che crede di poter offrire, ciò che ritiene avere il diritto di ottenere o di dovere fare…).

Le immagini, infatti, non ritraggono una riproduzione fedele della realtà, in quanto la percezione di quest'ultima è soggetta all'interpretazione dell'osservatore. Ciò che ritraggono è una selezione interpretativa di essa, una reinvenzione. Non esiste una realtà universale ed un unico modo di percepirla; la realtà è relativa alla percezione che ognuno ha di essa e il suo significato è strettamente personale, sociale e culturale.

Tale processo percettivo, di tipo visivo, avviene sia nel caso in cui è il cliente a scattare la foto, sia in fotografie in cui il cliente viene fotografato, sia lavorando su foto scelte da lui stesso per descriversi o per descrivere la propria famiglia, i parenti, gli amici…

Nel lavoro con la fotografia all'interno del setting terapeutico, ciò che riveste importanza non è la foto, che di per sé non ha alcun valore, bensì il criterio che il cliente adotta nella scelta delle immagini da portare o da scattare all'interno del setting stesso. La fotografia è diversa dalla realtà in quanto il rapporto con quest'ultima è mediato dal mirino e quindi frutto di una selezione. La fotografia, quindi, non è altro che il racconto di ciò che sto guardando nel mirino, l'evento.

Benché essa sia di per sé definita e limitata, non ha limiti per quanto riguarda il potenziale simbolico che può avere per il cliente. Ogni foto rappresenta, in fondo, un'immagine carica o caricabile di un senso esistenziale e un'importante traccia del percepito della persona che viene in terapia.

Questa traccia del percepito ci offre la possibilità di operare un lavoro di consapevolezza, di esplicitazione dei rapporti di figura sfondo tra gli elementi che la foto ritrae. Il terapeuta entra nell'universo razionale del racconto del cliente e ne mette in evidenza le incongruenze ponendo accenti e domande. Tali operazioni portano ad una parziale disgregazione o ad un ridimensionamento della strutturazione razionale del racconto in quanto elicitano quello che è il sottotesto emotivo di ciò che è verbalizzato.

Così facendo, vengono bypassati vari processi e si arriva direttamente ad un'esplosione narrativa. All'interno di questo percorso, il terapeuta compie un'operazione di facilitazione, di fiorire della memoria, del racconto di sé da parte del cliente. Egli non fa altro che dare la sua attenzione, cogliere, se si incuriosisce chiedere, soffermarsi, invitare a soffermarsi di più su qualche particolare o a lasciare andare il racconto.

Ad interessare è ciò che la fotografia evoca nel paziente. Non è necessariamente rilevante il soggetto fotografato, quanto quel qualcosa che richiama in lui. La fotografia diventa come un diario che viene letto e verbalizzato dalla persona.

Il lavoro si sviluppa in più fasi: in un primo momento, viene chiesto alla persona di disporre le foto sul pavimento in modo casuale. Questo tipo di disposizione consente una maggiore plasticità sia perché il pavimento rappresenta un'area ampia che offre la possibilità di posizionare le immagini aldilà dei limiti ristretti di un tavolo, sia perché permette al cliente di creare dei percorsi, di muoversi tra le fotografie dando vita a forme.

Una volta disposte le fotografie, ha inizio tra cliente e terapeuta un'operazione di ricostruzione di senso che passa attraverso una serie di domande che in qualche modo esplicitino il motivo per cui sono state disposte in quella particolare posizione e quello che evocano il lui.

Sono vari i livelli che posseggono una loro valenza terapeutica all'interno del lavoro con le fotografie. Ad esempio, può ricoprire notevole importanza proprio il soggetto fotografato in quanto in grado di rimandare a degli eventi. La fotografia, in fondo, è un momento, ma intorno a quel momento sicuramente c'è stato un evento, un accadimento, un processo relazionale. Può essere una modalità di lavoro anche andare a ricostruire il movimento che non c'è più nella foto, quello precedente e quello successivo all'istantanea.

Sono chiaramente associazioni, fantasie, in quanto non sappiamo cosa è successo veramente nella realtà storica, tuttavia, questo giocare con la propria storia è molto probabile smuova il cliente e lo porti a prendere in considerazione nuove cose, alcune delle quali anche disconfermanti ciò che le immagini rappresentano (io e papà nella foto, per esempio, siamo sorridenti ma nel racconto che precede e segue la fotografia non c'è niente di divertente).

Guardare una fotografia, infatti, crea una discrepanza in quanto molto spesso significa vedere un me stesso che non mi somiglia per niente in quanto bidimensionale; un me stesso che è molto simile al ricordo che ho di me ma che è diverso da come sono adesso. Tale discrepanza tra Io che guardo e Me che racconto muove l'attivazione emotiva di fantasie creative, un nuovo racconto.

E' importante che avvenga del racconto che dia movimento drammatico, narrativo, ad istantanee che di per sé non hanno più suoni, voci, odori…

Nel momento, per esempio, in cui guardiamo la fotografia dal punto di vista del soggetto che stava scattando, questa ci offre la possibilità di ricavare un'intervista al soggetto stesso; ci parla di quella che è stata la sua operazione di selezione, di scelta del punto di vista (cosa ha inquadrato, cosa ha messo a fuoco, cosa ha sfuocato…). Praticamente, avviene un'esplicitazione delle operazioni di selezione dell'attenzione che ha operato per inquadrare e fotografare le immagini che ha scattato.

Allo stesso modo, offrono interessanti spunti di lavoro i casi in cui il paziente seleziona alcune foto da portare in terapia in cui è lui stesso ad essere ritratto. Ogni foto rappresenta, infatti, un'immagine di se stessi, rimanda un'immagine. Selezionare delle foto da portare in terapia significa dunque, selezionare immagini diverse di sé stessi e di altri con cui poter lavorare e relazionarsi e, quindi, dare un contenuto al materiale scelto. E' essenziale, per questo, rispettare sempre il fatto che il paziente vuole lavorare proprio con le immagini che ha scelto.

In alcuni casi, non è il soggetto ritratto nella fotografia ad avere rilevanza quanto piuttosto un dettaglio presente nell'immagine stessa. Nella foto mostrata, per esempio, viene messo in primo piano l'incontro di due mani; quel dettaglio dà vita ad un racconto che può essere sganciato dai soggetti rappresentati (non era un semplice prendersi per mano; la mia mano era presa, in realtà, e ciò mi fa pensare ad un legame che non sono mai riuscito a tagliare, ad una libertà ottenuta…).

In altri casi ancora, quello che è importante non sono i due personaggi, io e mio padre mano nella mano, ma io e mio padre di fronte a mia madre che sta facendo la fotografia, per esempio. Oppure, potrebbe essere importante che quella foto è rovesciata o è mostrata prima o dopo altre fotografie.

Piccole cose che possono sembrare marginali ma che in realtà possono indicare tante cose: chi incorniciava le foto? Chi le metteva negli album? Come venivano conservate? Per portarle in terapia ho fatto il giro dei parenti, oppure sono io che le tengo?…

E' possibile, poi, allontanarsi da una singola immagine per avvicinarsi all'insieme delle fotografie portate in terapia. La loro disposizione sicuramente genera delle storie, dei racconti, o comunque, dei nessi più o meno logici, storici, emotivi: le foto dell'allegria, le foto della tristezza o l'alternanza delle due…

In un certo senso, stiamo parlando dei vari livelli di rapporto terapeutico, mediato dall'uso della fotografia, che vanno a lavorare su quello che è il sottotesto delle immagini e del racconto.

Il primo motore, nella relazione mediata dalla fotografia, è l'atto di volontà della persona con cui noi come terapeuti stiamo lavorando, in quanto questo ci permette di prendere contatto con tutto quello che è involontario, con quello che è volontario, con quello che muove una scelta e ne impedisce delle altre.

Se manca la volontà (di cui il primo atto è quello di telefonare per chiedere una relazione d'aiuto) è impossibile dare inizio a qualunque tipo di lavoro. Allo stesso modo, non basta trovare una fotografia; è necessario risalire o riattribuire in qualche modo la responsabilità della scelta di quella immagine, e quindi anche la proprietà di quella fotografia.

Quando la foto è stata scattata probabilmente non avrei mai pensato di portarla in terapia; nel momento in cui la porto, però, si carica di un atto di volontà, di un senso esistenziale forse da esplicitare all'interno del setting. Se manca questo aggancio, è difficile che il lavoro con la fotografia possa portare a dei risultati.

Per poter lavorare sull'esistere di una persona è indispensabile e sufficiente che questa in qualche modo dichiari un senso di proprietà, un'appartenenza alla propria esistenza.

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Scritto da

Dott.ssa Serena Rubechini

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