La diagnosi di depressione

Siamo veramente sicuri che si tratti di depressione? Riflessioni sull'opportunità di liberarsi di una etichetta abusata che produce effetti deleteri.

25 GEN 2018 · Tempo di lettura: min.
La diagnosi di depressione

Siamo proprio sicuri che sia depressione?

Una delle situazioni più frequenti e sconcertanti in cui continuo a imbattermi nei miei ventisette anni di pratica clinica è quella della persona che arriva portando con sé quella che sembra ormai una condanna sconsolata di lunga data: "Sono depresso".

Pur volendo considerare le rare forme di depressioni endogene esistenti, rimane allarmante il fatto che questa diagnosi sia il più delle volte il risultato di una analisi del tutto superficiale e semplicistica della reale situazione. Non si può concludere che una persona sia depressa solo perché si sente giù di morale o apatica.

Intendo dire che le persone che rimangono invischiate in qualcuna delle psicotrappole in grado di produrre disturbi invalidanti, in mancanza di una terapia adeguata ed efficace tenderanno nel tempo a sentirsi tristi, spente e con una gran voglia di piangere.

Questa reazione che ripeto essere del tutto adeguata alla situazione viene troppo spesso frettolosamente diagnosticata come Depressione dal medico di base o dallo psichiatra o neurologo di turno che frequentemente si "liberano" di un paziente lamentoso o pesante prescrivendo lo psicofarmaco per la gioia di farmacisti e casa farmaceutiche per non dire altro. Viene così sancita ufficialmente una etichetta di malattia senza alcuna considerazione per l'effetto che avrà nella vita successiva del paziente.

La depressione ha delle caratteristiche precise dal punto di vista psicologico.

Sulla base degli studi relativi alla logica della credenza sappiamo ormai molto bene che tutto ciò che è creduto esiste indipendentemente se sia vero o meno, e che produce effetti importanti sulle emozioni e comportamenti futuri della persona.

Il fenomeno è conosciuto in letteratura con il nome di "profezia che si autodetermina".

Dagli studi pioneristici di Rosenthal che hanno dimostrato come ottenevano voti più alti quegli alunni scelti casualmente ma segnalati agli insegnanti come i più dotati, a quelli più moderni sull'effetto placebo che indicano come una persona migliori di salute solo perché se lo aspetta in quanto assume a sua insaputa un farmaco inerte, è evidente che ciò in cui crediamo produce un effetto volto a confermare l'idea di partenza.

Quindi appare scontato che se soffro di una "malattia" chiamata "depressione" dovrò prendere i farmaci a vita e non potrò fare altro che rassegnarmi al mio sfortunato destino.

Le pretese dimostrazioni scientifiche sulle quali le case farmaceutiche investono non a caso migliaia di euro (gli psicofarmaci sono la seconda categoria di medicine più vendute) volte a dimostrare la riduzione di determinati neuromediatori nei pazienti depressi, crollano miseramente di fronte all'obiezione per cui quei valori siano solo l'effetto e non certo la causa di una tale condizione. Mi sembra ovvio che in chi si sente molto triste e abbattuto ci siano delle ripercussioni sul funzionamento del suo organismo mi stupirei del contrario. Ma confondere le correlazioni con le cause è un errore metodologico talmente grossolano quanto sospetto.

Da quel punto di vista risulterebbe poi molto difficile spiegare come mai quando una di queste persone risolve psicologicamente il problema che la affligeva la depressione misteriosamente scompare e i farmaci non sono più necessari (anche se mi è capitato di sentire fino all'ultimo qualcuno sostenere che il paziente era guarito solo perché i farmaci avevano finalmente fatto effetto, dopo svariati anni!).

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Scritto da

Dott.Carlo Paradisi Miconi

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