Invecchiare è il capolavoro della vita

Rita Levi Montalcini diceva che per la persona anziana fosse importante soprattutto riuscire ad aggiungere vita ai propri giorni piuttosto che altri giorni alla propria vita.

6 AGO 2020 · Tempo di lettura: min.
Invecchiare è il capolavoro della vita

Un vecchio proverbio diceva che saper invecchiare è il capolavoro della vita.

I progressi della medicina preventiva, estendendo l'aspettativa di vita delle persone e aiutandole ad alleviare alcune sofferenze e disabilità tipiche della vecchiaia, han fatto in modo che questo proverbio fosse preso in considerazione più seriamente e concretamente.

Oggigiorno ci troviamo infatti a far i conti con degli esseri umani che patiscono, come non mai, la propria vecchiaia a fronte, anzitutto, di una vita professionale e affettiva più che soddisfacente ma anche per "colpa" di una cultura (quella occidentale) volta all'esteriorità e all'esorcizzazione della morte, di quelle dimensioni dell'esistenza quali la riflessione, l'emozione, il silenzio e l'attesa per relegarle a valori secondari.

Diversi esperti (A. Maderna, D. Ianni, e P. Membrino) dicono che nel breve volgere di pochi anni l'adulto si trova ad affrontare una fase di trasformazione molto rapida a cui spesso arriva del tutto impreparato. Tra i fattori più significativi vi è certamente (a) il pensionamento che taglia drasticamente quella rete di rapporti interpersonali coi colleghi in cui il soggetto aveva sviluppato la parte centrale della sua vita; (b) la perdita dei congiunti e degli amici; (c) le modificazioni fisiche/organiche/cognitive oggettive che costituiscono drammaticamente una prima anticipazione della morte. A quest'ultime modificazioni s'aggiungono poi anche quelle fantasmatiche, o meglio, quelle interiori caratterizzate dalla necessità di far fronte al cambiamento temporale che non si orienta più verso il futuro ma verso il passato e verso tutti quei conflitti solo apparentemente assopiti. A. Maderna dice che il dischiudersi di un tempo libero senza più una rete di riferimento pre lo spazio della solitudine, una solitudine che in realtà è sempre esistita ma che era stata mascherata da un'ampia gamma di modalità centrate nell'ordine del "fare", a scapito di altre nell'ordine del "sentire". E per il soggetto "promosso" anziano, al quale vengono a mancare in rapida sequenza i luoghi e i modi del "fare", la disabitudine a "sentire", a svolgere cioè una gamma di operazioni centrate con la propria interiorità, comporta uno sbandamento al quale molti non riescono ad adattarsi>(1987, p.536). La crisi che coinvolge l'anziano potrebbe far pensare - per drammaticità e dolore - alle crisi che coinvolgono e scuotono gli adolescenti. Tuttavia esiste una profonda differenza dal momento che la crisi adolescenziale rappresenta un'apertura verso il mondo mentre quella senile un ridimensionamento verso il mondo.

Nel "Re Lear" di Shakespeare sembra succedere proprio questo. Il Re Lear, orami anziano, si trova tormentato interiormente dalla perdita di potere, status e forza. A questi sentimenti l'autore passa magistralmente in rassegna quelli di impotenza e disperazione che portano l'anziano re ad assumere un atteggiamento - dittatoriale e rabbioso, controllante e tirannico, sfiduciato e lamentoso - che tutti noi abbiamo probabilmente osservato e vissuto nei nostri padri e madri, nei nostri nonni e nonne.

Alla base di questo comportamento vi è un accentramento marcato su se stessi, che per mezzo di difese narcisistiche,permette all'individuo di conservare una buona immagine di sé così di "risolvere sbrigativamente" il conflitto dell'io con se stessi e per arrivare alla temuta morte senza essere invecchiati, senza serenità, senza alcuna possibilità elaborativa (si pensi all'artificiosa pseudo-giovanilità).

Sorge quindi la domanda: che cosa rende possibile accettare la transitorietà della vita, tollerare le perdite crescenti, la solitudine? L'ultracentenaria e premio Nobel Rita Levi Montalcini diceva che per la persona anziana fosse importante soprattutto riuscire ad aggiungere vita ai propri giorni piuttosto che altri giorni alla propria vita. Sottolineava così la necessità dell'anziano a partecipare a esperienze vivificanti e arricchenti, preservandolo dal grigiore dei giorni sempre uguali e monotoni, anche se "tanti". La psicologa Danielle Quidonoz traccia così una differenza tra gli "anziani ancora giovani· e gli "anziani vecchi" considerando non tanto l'età anagrafica quanto la capacità di questi di utilizzare ancora le proprie risorse: aggiornarsi su quello che era il proprio campi di lavoro prima del pensionamento, oppure coltivando qualche specifico interesse riguardante l'area sportiva, l'impegno sociale, il campo culturale ecc.

Nei casi più gravi, quando cioè la vecchiaia assume i connotati più patologici - quanto tutte le ore della giornata divengono spente e vuote - si rende necessario un trattamento professionale. Il terapeuta una volta accertata la situazione cognitiva della persona, con appositi test, dovrà poi capire cosa occorre a questi. Dovrà cioè proporre una psicoterapia o una serie di incontri, che se non registrano una particolare gravità, implicano soprattutto una funzione di sostegno e una valorizzazione delle capacità presenti tenendo sempre a mente che per questi l'incontro col clinico, nonostante le perplessità iniziali, rappresenta un'occasione unica per parlare profondamente di sé con qualcuno con cui non c'è un vistoso coinvolgimento affettivo, come coi propri familiari. In altri casi invece si rende necessario e più utile proporre alla famiglia un inserimento in contesti gruppali e ricreativi i cui interventi sono volti a ri-abilitare o potenziare le abilità residuali ma anche le capacità affettive e quelle sociali.

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Scritto da

Dott. Aldo Monaco

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