Introduzione a "Il panico e la sorgente"

​Nel suo fondamento la questione del panico è la questione della sorgente. Nel panico, non si tratta di essere angosciati o traumatizzati ma di essere es-posti. Che succede cioè se la psiche

13 GIU 2016 · Tempo di lettura: min.
Introduzione a "Il panico e la sorgente"

Nel suo fondamento la questione del panico è la questione della sorgente. Nel panico, non si tratta di essere angosciati o traumatizzati ma di essere es-posti. Che succede cioè se la psiche si pensa là dove sorge?

Se si intrattiene con l'enigma, con la sfinge che occupa il luogo dove si commettono gli impossibili bios e logos? Di norma essa risponderà con tutto ciò che è umano ma tale esposizione rimane un rischio costante, perché la mente degli uomini è organizzata in maniera essenzialmente teleologica; tutta impegnata nella ricerca perpetua di un pensiero che possa estinguere la domanda, che possa ricadere sull'essere e tacitarlo una volta per tutte.

Ma tale compito è un compito impossibile, di un impossibile della peggior specie, perché nel suo movimento s'imbozzola in una possibilità orfana del suo rapporto con l'impossibile e che dunque ha smarrito l'ombra che la costituisce ed è pertanto silenziosa. In quel posto stiamo, scavando e riscavando la nostra fossa.

Cosa dice infatti il DSM? Con questa domanda si apre il libro di Alberto Zino (ETS, 2014). Questo enorme testo fatto di formule, dati (senza meraviglia), assi diagnostici, gruppi, classi di riferimento.. Dice e lo fa dall'alto della grande montagna del pensiero occidentale, le parole che stanno chine all'ombra del desiderio di padronanza. In esso, nel suo discorso, l'uomo è alienato e reso altro, nel caso specifico reso nulla, un nulla stavolta inalienabile, che non permette alcun ulteriore transito: è la morte dei passaggi che si aprono in seno alla parola. Qui sembrano vivere gli uomini del DSM, in queste terre aride e gelate, prive di sentieri. Un cammino nell'abbandono direbbe Blanchot.

In che relazione sta il panico con tutto ciò?

Esso dice Zino

"è il segnale estremo del domandare inesausto, allarme limite tra la vita immiserita e il senso della morte" ed è forse il segnale della crisi a cui le società nate dalla tecnica ci conducono "visibilmente, mettendoci a nudo di fronte al baratro dell'avvenire".

Il panico appare così come il contraccolpo di questo a-venire, il segno del rifiuto della produzione d'inconscio e sta lì a testimoniare l'intestimoniabile se non attraverso quel gesto di attacco.

Si tratta di un angoscia che non è più angoscia di questo o quello, non attiene più al nostro teatro interiore fatto di conflitti e rimozioni ma di un angoscia senza oggetto, di una vetta d'angoscia in cui tutto si mostra in una attimo ma senza il privilegio di una vista d'altura, perché la vetta è insieme l'abisso, il fondo senza fondo e si rimane abbagliati da questa "overdose di articolazione simbolica" in cui l'unica parola che trova ancora posto è quella che non c'è.

A partire da qui è allora possibile pensare la questione dell'analisi, la possibile conduzione di una Cura in cui non si tratta, come non si è mai trattato, di aggiungere o togliere parole, ne di fare qualcosa o di vedere, ma di ascoltare. Opporre silenzio al silenzio.

Freud lo dice:

La psicanalisi non è una concezione del mondo (l'assoluto fa parte dell'inconscio solo come sintomo). È molto di più, un etica. Un etica dal momento in cui abbiamo a che fare con il Todestriebe, la spinta della morte, la sua domanda, che agisce in silenzio ed è inestinguibile: "oltre il principio di piacere la domanda è a oltranza, è pulsione in atto". È una faccenda non risolvibile.

Perciò si tratterebbe di prenderci cura di questo movimento in cui da sempre siamo iscritti.

In un passaggio molto suggestivo Zino descrive gli uomini come delle creature curiose che prima di partire per miti millenari hanno dimenticato di chiudere il cancello alle loro spalle.

Come chiuderlo? È possibile?

Qui si gioca la partita dell'analisi. Essa, di fronte all'Aperto, suggerisce una finta, una finzione - che è anche una commedia. Che rimette le cose al loro posto solo in modo leggermente diverso, assicurando una titolarità al soggetto, un passato, una memoria e un futuro, creando così le condizioni di un racconto.

Tutto ciò esula da ogni ragione salvifica come la intendiamo comunemente, nel senso di una cosmesi, di un progressivo adeguamento ad un mondo salvo in quanto perfetto, in cui un giorno sarà possibile prendere domicilio, ma attiene alla salvezza nei suo rapporti con l'insalvabile, in quanto possibilità di dire e dire ancora l'oblio, senza dire contro di esso, ne assimilarlo o rigettarlo nelle tenebre. Dirlo di lato, creando le possibilità di un legame.

Il male è il vaso infranto del bene diceva Kafka e a questo proposito mi viene in mente quella tecnica giapponese che consiste nel sottolineare le fratture di un vaso con delle pennellate d'oro, nel benedire cioè le tracce di un evento, per guadagnare la memoria di una caduta, aprendo così ad un "più di vita".

Un lavoro - per l'essere umano sempre esposto all'abisso - da compiere una volta per tutte le volte: un compito infinito.

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Scritto da

Dr. Nicola Mariotti

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