Il pianto dei nostri figli
Il pianto è la primaria fonte di comunicazione dei neonati. Ma che effetto ha su chi se ne prende cura? Proviamo a capirlo.
La sensazione più forte che si sente nel momento in cui nostro figlio piange disperato è la frustrazione. Ma cos'è la frustrazione precisamente? I latini con frustratio intendevano delusione. In questo caso specifico il dolore che proviamo nel non capire cosa nostro figlio urlante cerca di comunicarci.
Qui si intrecciano, però, vari aspetti: la frustrazione, appunto, nel non capire bene come intervenire e far sparire quel dolore, l'empatia che proviamo nei confronti di nostro figlio, provando probabilmente lo stesso che lui/lei sta vivendo, ed infine la difficoltà di comprensione e quindi di comunicazione fra genitore e figlio.
Sono tre aspetti che dovrebbero essere visti maggiormente da vicino.
Spesso noi genitori rischiamo di autocolpevolizzarci quando non riusciamo a consolare nostro figlio. Cerchiamo mille riposte, proviamo mille soluzioni, cerchiamo su internet o parliamo con amici. Intanto lui/lei piange sempre di più e noi ci sentiamo sempre peggio.
Come rompere questa dinamica?
- Accettare, in primis, il fatto che non possiamo avere sempre le risposte. Non siamo cattivi genitori se non riusciamo ad intercettare immediatamente le difficoltà dei nostri figli;
- modulare il tono della voce. Non risolverà il problema, ma può accompagnare le urla proponendo una tonalità più bassa ed accogliente. Studi sulla prosodia (intonazione, ritmo, durata e accento del linguaggio) mostrano come aiuti nel promuovere stati di rilassamento nei piccoli (P. Sorianello, 2006);
- provarle tutte. Si, provare e provare ancora. Di volta in volta impareremo a capire cosa potrebbe aiutarlo in base alle esperienze passate. E quando si presenta qualcosa di nuovo? Agiremo come sopra, in fondo anche noi ci aggiorniamo come genitori di giorno in giorno.
Questo ci porta a ragionare sul concetto dell'empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni dell'altro, di sentire ciò che l'altro sente, nello sperimentare ciò che l'altro prova. La natura ci ha concesso questa possibilità, l'abbiamo sviluppata come esseri umani anche per la cura della prole.
Cercando di entrare in contatto con i nostri sentimenti possiamo immaginare cosa nostro figlio stia provando. Non solo nel momento in cui piange disperato, ma anche quando ci guarda cercando di cogliere i dettagli del nostro viso o cogliere le nostre espressioni.
È un'imitazione vicendevole, fenomeno studiato come "Teoria della mente", aspetto fondamentale delle interazioni adulti-bambino (D. Permack, G Woodruff, 1979) (L. Camaioni, 1998).
Ascoltiamoci quindi quando il bambino piange. Sentiamo dispiacere? Bene, altrimenti saremmo veramente scollegati da nostro figlio.
La questione della difficoltà nella comunicazione viene spesso trascurata quando rappresenta un fattore fondamentale. Affermare di non capire la difficoltà di nostro figlio equivale ad accettare che non riusciamo ad interpretare i suoi segnali. Ovviamente i messaggi non verbali possono essere più difficili da comprendere ma il primo assioma della comunicazione umana asserisce che "è impossibile non comunicare". Questo è il punto. (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, 1978)
In conclusione, la frustrazione che proviamo nel non comprendere i messaggi di nostro figlio ci mettono nella condizione di provare noi stessi uno stato di sofferenza che può aiutarci ad entrare in sintonia con nostro figlio e quindi provare ad intervenire al meglio.
Quello che ci sembra una situazione di stress e di dolore è in realtà la strada maestra per toccare con le emozioni quelle di nostro figlio. Non è sbagliato quindi sentirsi dispiaciuti ed incapaci di aiutarlo, è l'unico modo per trovare poi un modo di farlo.
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