Il colloquio clinico con la famiglia e gli adolescenti

L'adolescente vive una crisi esistenziale che lo investe completamente, sia fisicamente che emotivamente, dunque anche l'intervento psicologico deve seguire una natura plastica.

21 OTT 2021 · Tempo di lettura: min.
Il colloquio clinico con la famiglia e gli adolescenti

Un concetto utilizzato nella definizione di adolescenza è quello di transizione: essa è il momento di crisi più noto ed inevitabile di ognuno, una fase di frontiera in cui gli equilibri e gli investimenti stabili nel periodo di latenza frantumano e gli apporti di energie nuove travolgono un corpo in mutamento.

Nella dimensione adolescenziale gli sconvolgimenti investono la persona su tutti i livelli di funzionamento (cambiamenti corporei, definizione dell'identità sessuale, distacco dai genitori come oggetto d'amore primitivi, relazioni con i coetanei, nuove modalità cognitive e trasformazioni del ruolo sociale) e inevitabilmente ci si trova a vivere un disagio che spesso non è accompagnata da una richiesta di aiuto. Sin dagli arbori la psicoanalisi tradizionale si è trovata a dover rimettere in discussione la rigidità del suo modus operandi nell'accogliere ragazzi che vivono con disagio la crisi adolescenziale. Essenzialmente si tratta di individui che stanno sperimentando un corpo che cambia, sono spaventati e disorientati, privi di identità, non ancora del tutto svincolati dalle rappresentazioni genitoriali e con un disagio non sempre inquadrabile all'interno delle classiche categorie diagnostiche della psicopatologia. Paradossalmente però, è in questo delicato frangente di vita che un intervento terapeutico tempestivo ed efficace permette la strutturazione di una personalità adulta sana ed equilibrata. Le fenomenologie presentate dagli adolescenti hanno portato gli osservatori a riconsiderare inizialmente il setting della classica cura psicoanalitica, obbligando gli analisti ad una sorta di plasticità riguardo il proprio ruolo e successivamente a mettere in discussione i presupposti della tecnica e teoria di riferimento. Secondo alcuni la "psicoanalisi dell'adolescenza" ha destrutturato il paradigma classico della psicoanalisi stessa (Pellizzari G.), producendovi una sorta di rivoluzione epistemologica (Petrella F.). La psicoanalisi a partire dalle osservazioni innovative che sortivano dallo studio dell'adolescenza, ha mostrato così tutta la sua vivacità e plasticità di fronte a nuovi stimoli, creando i presupposti per un nuovo modello.

La frequenza di giovani che oggigiorno ricevono un aiuto psicologico difronte a problemi e difficoltà della propria vita emotiva è in netto aumento. Alcuni infatti, alle prese con gli importanti cambiamenti stagnano in quello che Laufer definisce "breckdown evolutivo", "una spaccatura tra il corpo fisicamente maturo di sentirsi passivi dinanzi alle esigenze che dal corpo provengono, una frattura nel processo di integrazione dell'immagine del corpo fisicamente maturo rispetto alla rappresentazione che si ha di sé"(1975).

L'adolescente se da un lato acquisisce nuove potenzialità cognitive, capacità di riflettere sui propri pensieri, di mediazione tra presente, passato e futuro… dall'altro deve tollerare il dubbio, la solitudine, la tristezza, l'angoscia che da tutto ciò scaturiscono. Se quindi si possono riconoscere dei sentimenti depressivi che appartengono allo sviluppo normale dell'adolescente, è fondamentale saper riconoscere quei quadri che si configurano come psicopatologici. Il criterio che permette di distinguere percorsi di sviluppo normali da percorsi di sviluppo patologici non è pertanto quello fenomenologico/comportamentale, bensì quello soprattutto quello temporale di transitorietà/persistenza.

Inoltre, va ben considerato che i comportamenti trasgressivi o anomali presenti in adolescenza non sempre rappresentano le manifestazioni di un disagio personale ma possono essere espressione di un mancato riconoscimento da parte degli adulti delle esigenze di sviluppo o peggio di una disfunzionalità familiare. È opportuno considerare il fatto che quando si ha a che fare con gli adolescenti, la domanda non è quasi mai derivata dai ragazzi, ma anzi dai genitori stessi. Questi, alle prese con il "sintomo" del figlio (tossicodipendenza, comportamenti aggressivi, autolesionistici, abuso di alcol, disturbi alimentari…)sono estremamente sofferenti, sommersi dall'angoscia e impossibilitati a pensare se non all'urgenza di porre un rimedio al disagio del loro figlio. Chiedono al terapeuta di dar loro consiglio e allora diventa importante, anche per la costruzione dell'alleanza terapeutica con l'adolescente ed evitare interferenze familiari, la creazione di uno spazio d'ascolto, comprensione e riflessione rivolto a loro. Il terapeuta interviene sul ragazzo anche attraverso il sostegno alla genitorialità, offrendo loro gli strumenti adeguati a contenere e decifrare il disagio del loro figlio, che attraverso il sintomo chiede aiuto alla famiglia. Il ragazzo si prepara a entrare nell'età adulta e i genitori possono facilitare il superamento in questa fase critica, cercando di mantenere un buon dialogo, prendendo seriamente i suoi problemi senza banalizzarli e facendo rispettare regole chiare. In questa dinamica si consiglia, anzi è importante coinvolgere la famiglia nella presa in carico di un adolescente problematico; dunque la pratica clinica suggerisce la necessità di un primo incontro con la famiglia (funzionale all'analisi della domanda e all'anamnesi del ragazzo), un secondo incontro congiunto genitori/figlio al fine di cogliere la dimensione sistemico/relazionale tra i membri e successivamente avviare un percorso individuale col ragazzo.

Il primo incontro con la famiglia

Come esplicitato precedentemente, la peculiarità dell'intervento psicologico con un adolescente, sta nel fatto che a contattare il terapeuta è solitamente la famiglia e non il ragazzo (che il più delle volte rifiuta di esser aiutato). Questi, appaiono preoccupati, tesi , hanno bisogno di aiuto, non capiscono più cosa stia succedendo, non ce la fanno e spesso ragionano per lo più in termini di colpa. Altri si pongono fuori dai giochi, come osservatori mentre altri sono rassegnati. In questo momento è necessario ricordare che i genitori non vanno istruiti, ma aiutati a recuperare le loro capacità, ricevendo tutti gli strumenti che facilitano l'intervento sul ragazzo. Si tratta di aiutarli a leggere i comportamenti del figlio, destrutturando il pregiudizio o modelli educativi che hanno sperimentato nell'infanzia e li influenzano. Spesso recuperando nei genitori la fiducia delle proprie competenze, si riesce a riprendere un processo educativo virtuoso, in cui l'adolescente si sente riconosciuto e i genitori diventano veri e propri co-terapeuti (l'obiettivo è avviare un processo che deve proseguire da casa). È importante svolgere la prima seduta solo con i genitori, perché, democraticamente venga offerto loro uno spazio d'ascolto dove poter essere liberi di esprimere i loro sentimenti, che spesso non possono essere condivisi col figlio. Parlare del figlio di fronte a qualcuno è un'opportunità che si presta ad esplorare un malessere più ampio, che facilita la presa di coscienza di qualcosa che è oltre. Gestire un ragazzo adolescente che manifesta un malessere vuol dire fare i conti con la propria storia, tanto che spesso la crisi del figlio viene usata come paravento per evitare di prendere in considerazione la propria vita (nell'ottica sistemico/relazionale si parla di paziente designato). Pur riconoscendo che non è necessario seguire un protocollo rigido, il primo incontro con i genitori consta di due momenti importanti: l'analisi della domanda e la raccolta dei dati biografici del figlio. Ora è bene sottolineare che la richiesta esplicita, volta a normalizzare un comportamento problematico del ragazzo, va decifrata perché cela dietro sé una domanda implicita che si evince dai dettagli, le sfumature, dal clima che si crea in questo primo incontro e che talvolta trascende il sintomo dichiarato. La famiglia va tenuta presente in termine di campo relazionale in cui i problemi si manifestano ; gli adolescenti, per il salto di sensibilità che vivono, divengono recettori di campo: avvertono ci che succede in famiglia ed è anche possibile che assumono su di sé il problema di un adulto o la tensione di coppia. Comunque il terapeuta deve porsi in un atteggiamento di epochè, sospensione del giudizio morale davanti lo stile educativo da loro adottato, evitando di alimentare i sensi di colpa, al contrario va trasformata in senso di responsabilità.

In un secondo momento, si ha la raccolta degli aspetti biografici del ragazzo. Ovviamente i colloqui con i genitori non hanno lo scopo di trovare le cause del comportamento sintomatico attraverso il passato biografico, ma servono per cogliere importanti correlazioni tra l'ambiente in cui il ragazzo vive, gli aspetti ereditari e la sua individualità. Bisogna prestare attenzione a come l'adolescente gestisce ciò che gli viene dall'esterno, quanto ci mette di suo, quanto viene sopraffatto dall'ambiente e/o ha capacità di reagire. Nel corso dell'età evolutiva, queste due forze, quella esterna e quella interna, si alternano in cerca di equilibrio. Bisogna cogliere le correlazioni, l'equilibrio tra ricettivo/ immedesimativo e espressivo/volitivo.

Il secondo incontro congiunto genitori/ figlio

Una vastissima letteratura (a partire da Selvini Palazzoli, 1963) dimostra che il tentativo di costruire un'alleanza terapeutica con ragazzi adolescenti attraverso sedute individuali (prassi tipica di un approccio iper-individualista) richiede spesso anni, produce innumerevoli abbandoni della terapia e per di più può dare cattivi risultati perché l'adolescente vive l'invio dal terapeuta come l'ennesimo abbandono/ delega del genitore, con un pericoloso allontanamento affettivo dai suoi genitori oltre che produrre un transfert negativo sul terapeuta (Selvini, 2013). L'adolescente accetta più volentieri una riunione familiare per parlare in generale di quello che non va a casa, piuttosto che un personale invio dallo "strizzacervelli" (questa si è rivelata un'ottima strategia per facilitare la presa in carico di un adolescente non richiedente/collaborante).

L'incontro familiare non solo permette di smorzare l'atteggiamento negativista del ragazzo, ma offre la possibilità allo psicologo di osservare sul campo tutte le informazioni raccolte nel primo incontro, valutando il funzionamento della famiglia come sistema. La valenza terapeutica dell'incontro congiunto è dettagliatamente sostenuta da Matteo Selvini attraverso 6 punti:

  1. Aumenta la possibilità che l'adolescente arrivi ad incontrare l'esperto;
  2. L'incontro diviene più significativo, perché l'adolescente arriva ostile, mutacciolo, passivo, oppositivo l'ascoltare le domande del terapeuta e le risposte dei familiari è probabile che lo attivi. Si sente spinto a mettersi in gioco;
  3. L'incontro familiare è più rapido nel cominciare a valutare non solo le risposte/ patologie dell'adolescente, ma contemporaneamente quelle di familiari. Aumenta la tempestività delle eventuali misure per la messa in sicurezza dell'adolescente (tipo allontanamento in caso di violenza domestica). L'economicità è un vantaggio incontrovertibile;
  4. L'incontro congiunto può essere il primo passo per una riconciliazione: rituale fortemente simbolico di condivisione, autocritica e appartenenza. È quindi preziosissimo quindi in contesti in cui la fiducia di base è lacerata e l'attaccamento disorganizzato;
  5. Una soluzione positiva emblematica è quella di quando i familiari, fianco a fianco con l'adolescente si dimostrano capaci di dare l'esempio di mettersi in discussione e di aprirsi;
  6. La seduta congiunta può far entrare in seduta di terapia anche familiari con gravi disturbi psichici non trattati e consente un'immediata presa in carico che rimedia alla negazione/ svalutazione del problema fin ora in atto.

L'obiettivo essenziale di stabilire una relazione significativa, richiede un atteggiamento attivo e direttivo da parte del conduttore/terapeuta ; il solo ascolto risulterebbe fallimentare, perché ci si troverebbe travolti dalle interazioni disfunzionali, mentre è fondamentale cercare di produrre un'esperienza innovativa/correttiva. Le linee guida di un primo colloquio, puntano sulla co-costruzione dell'autorevolezza del terapeuta e sull'intensità del coinvolgimento emotivo dell'adolescente, senza dimenticare che è fondamentale creare uno spazio emotivamente sicuro (Escudero et. Al 2010) dove nessuno si senta accantonato. A favore di questo tipo di approccio vi è anche il fatto che gli adolescenti tendono alla diffidenza e alla sospettosità e possono alludere, con un invio meramente individuale ad un'alleanza/complotto ai loro danni. Inoltre non ha senso fargli affrontare da solo un'esperienza che non ha scelto lui, coatta, e che molto probabilmente lo preoccupa. Bisogna tener di conto che possono esserci fantasie di esser puniti, umiliati, criticati, trattati con farmaci o addirittura ricoverati (Keating- Cosgrave, 2006). È evidente che l'atto stesso di chiedere per lui una visita specialistica per problemi mentali e/o comportamentali, contiene un'implicita e potentissima connotazione negativa :" c'è qualcosa che non va in te, ed è qualcosa di molto potente che concerne la tua persona!". È quindi un passaggio critico che ha bisogno del massimo sostegno, accompagnamento.

Solitamente la scaletta per la conduzione del colloquio congiunto genitori/figlio prevede di iniziare con un riferimento sintetico al primo contatto con i genitori, una richiesta d'aiuto di cui verrà esaltato l'aspetto relazionale più che il disagio personale in sé, proprio per non rischiare di attivare un contesto accusatorio. Selvini suggerisce che è più coinvolgente ed equilibrato proporre domande miste individuali/relazionali.

Riassumendo, in tutta l'area dell'opposività dell'adolescente in crisi, è importante per l'efficacia dell'alleanza terapeutica, prediligere nei primi incontri una seduta congiunta preliminare a un percorso individuale. I fattori fondamentali di cambiamento sono:

  • Riconoscimento della sofferenza e costruzione del consenso collettivo su una spiegazione psicologica del problema (Selvini, 2003);
  • Attivare misure per la messa in sicurezza di tipo extra-familiare;
  • Attivare la messa in sicurezza di tipo intra-familiare (ad esempio neutralizzare un genitore violento e favorire la gestione del genitore più adeguato);
  • Consentire una costruttiva messa in discussione del genitore o dello stesso adolescente;
  • Aprire una riflessione che colleghi la storia di ogni membro familiare con la specifica reazione dell'adolescente;
  • Dare avvio a processi di ricostruzione di appartenenze e riconciliazione/riattivazione dell'attaccamento.

Per quanto concerne quest'ultimo punto si ritiene che l'affrontare uno stato di crisi insieme, la famiglia sperimenta la fattibilità di un forte rituale di condivisione e di appartenenza , tanto da avere una ristrutturazione della percezione: non sono più i genitori a fronteggiare l'adolescente problematico, ma è la famiglia che si allea e collabora per risolvere un disagio.

Il terzo incontro con l'adolescente

Dopo i primi incontri interfacciati con la famiglia, segue l'avvio della consulenza individuale che vede l'adolescente nella stanza d'analisi solo con il terapeuta. Telleschi e Torre (1997) sostengono che, il giovane adulto ha un approccio e un modo di comunicare sui generis, diverso dagli adulti, torna così utilr il concetto di malleabilità del contesto. Il compito del terapeuta è quello di "riuscire a costruire un campo relazionale, un'esperienza in cui a poco a poco il paziente si sentirà al sicuro quando parlerà delle sue fantasie, delle sue debolezze , delle sue capacità."

Anche il setting va reso aderente: si predispone un ambiente caldo, accogliente e familiare, non troppo "adulto", nel senso di eccessivamente lontano dall'adolescente, né troppo informale o al contrario istituzionale… questo permettrà al ragazzo di sentirsi a suo agio, facilitando la costruzione del rapporto e l'autenticità del colloquio. In questo primo contatto diretto con il ragazzo, m olti autori (Backer, 1990) suggeriscono di "fare la conoscenza" del giovane, chiarendo il ruolo del terapeuta, rassicurandolo e sollecitando una motivazione al colloquio più intrinseca (Lis 1993), facilitando così l'abbandono delle difese iniziali (spesso l'adolescente vive la sensazione di esser un pacco che è stato mandato lì). Richiamare l'esperienza dell'analista e il proprio sistema di valori è un modo per ricambiare il cliente per ciò che dà di sé, rendendosi più umano ai suoi occhi.

È importante, anzi imprescindibile chiarire che nulla di quanto emerso dal colloquio verrà detto a terzi senza il suo permesso, questo fa sentire il ragazzo al sicuro e libero di parlare all'interno di un clima di fiducia e sincera complicità. Si consideri che a prepararsi all'incontro non è solo il ragazzo ma anche il terapeuta; Marcelli e Braconnier (1999) spiegano che la diagnosi dell'adolescente è spesso guidata da categorie empiriche, tali da non permettere una vera conoscenza della rilevanza soggettiva del disagio proprio del ragazzo. Capire le rappresentazioni che si possiedono non è sufficiente, occorre sondare i mondi dell'adolescente (esso ha un sistema di valori, credenze, modi di interfacciare la realtà completamente diversi dagli adulti) per poi "toccare con mano" la sensibilità del giovane. Lis (1993) parla di approccio evolutivo, ossia l'esser sensibili al significato affettivo dell'esperienze e accettare l'evoluzione naturale del pensiero come base per una comprensione ed elaborazione delle sue problematiche. Il terapeuta deve fare i conti con il senso di frustrazione, accettare che l'adolescente ha i suoi tempi e non bisogna imporgli la fretta di curare.

Il processo di conoscenza comunque non si esaurisce al primo incontro, anzi si arricchirà nel corso dei successivi colloqui grazie ad una totale disponibilità all'ascolto e ad un atteggiamento empatico, ma è nel primo incontro che avviene il Contatto. Anna Fabbrini spiega questo concetto come l'agganciarsi dell'analista e del giovane, il sentire, intuire che c'è fiducia tra loro. In termini tecnici, fare contatto è creare un campo comune, emergere come figure e sintonizzarsi. Il contatto si fa se c'è convergenza, ecco perché si predilige questo tema al primo incontro: l'esplorare la possibilità di costruire un legame. Ad ogni modo, questo legame necessita di rispetto e pazienza, il colloquio clinico vede il relazionarsi di due persone con ruoli diversi, non è un rapporto simmetrico. Per gli adolescenti ciò è un fatto molto difficile da accettare, la relazione con il terapeuta li fa percepire in una condizione di dipendenza dalla quale rifuggono. Per livellare questo gap, il linguaggio viene modellato su uno stile più intimo e generico, avendo cura di scegliere le parole più adeguate, perché spesso un'espressione pertinente permette di aprire uno spiraglio, una traccia di curiosità là dove c'è resistenza e totale silenzio.

Un altro aspetto rilevante è la fiducia all'intuizione, il terapeuta deve saper annusare la situazione anche se a volte gli adolescenti spiazzano con le loro decisioni imprevedibili. Tendenzialmente si pongono contratti a breve termine, concordando periodi di lavoro rinnovabili; ciò li rassicura molto, hanno infatti bisogno di non sentirsi vincolati, di controllare la situazione. A proposito di tempo, il rispetto della loro naturale evoluzione emerge anche nel pensiero di Novelletto quando parla di "diagnosi prolungata", un metodo di valutazione che aiuta lo psicologo a "rendersi conto (…) dei tempi di evoluzione" dell'adolescente. Il terapeuta deve considerare che, quanto agli adulti appare come evolutivo, il ragazzo può viverlo come drammatico e/o permanente, il suo compito sarà allora quello di rassicurarlo quando opportuno ed eventualmente aiutarlo a collocare questo disagio lungo il suo percorso evolutivo, riconoscendolo e rimandandogli "un'immagine di un cammino alla ricerca di sé stessi che egli comunque sta facendo" (Lis et al. 1995, p.165). i segnali del breakdown evolutivo emergono dalla narrazione del giovane; non bisogna porre domande dirette o spietate, ma creare attraverso un colloquio mirato quella confidenza che faccia rilevare spontaneamente il dolore sottostante.

L'atteggiamento è fenomenologico, come dice Perls "pelare la cipolla", andare in profondità parendo sempre da quel che si vede. È importante arrivare all'assetto che regge il sintomo, alla natura della sofferenza con meticolosa prudenza. Questi aspetti vengono fuori strada facendo, man mano che l'adolescente si fida. La fretta inaridisce l'alleanza terapeutica.

Jeammet (1999) parla di comprendere il "linguaggio dei sintomi", riferendosi in particolare alla "capacità di spostamento del paziente"; più in generale, è utile ricordare che "la messa in atto" o acting out è uno dei meccanismi di difesa privilegiati in questa età. Ovviamente potrà capitare che, nonostante vengano prese tutte le necessarie accortezze, l'adolescente risponda alle sollecitazioni con lunghi silenzi (Barker, 1990; Lis, 1993). Alcuni autori concordano nel considerare questo rifiuto di parlare come una manifestazione del rifiuto degli adulti o, comunque è ben diverso da un normale silenzio, perché in seduta d'analisi può essere investito da molti altri significati.

Focalizzando l'attenzione sul contenuto del colloquio, Lis et al. (1995) individuano come finalità specifica il compito di aiutarlo a definirsi e individualizzarsi. Tale principio dev'essere la lente con cui osservare le diverse aree di indagine, che in ogni caso dovranno essere comprese alla luce del particolare significato che esse hanno per il giovane.

Un tema che molto probabilmente emergerà sarà quello dell'esperienza di cambiamento corporeo che è spesso fonte di ansia, timori, preoccupazioni e comportamenti aggressivi (auto ed etero diretti). Ecco che quindi, diviene fondamentale valutare come l'adolescente si pone dinanzi questi stravolgimenti, quale ruolo informativo ha la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari. A seconda dell'approccio teorico si tende a dare più rilevanza ad uno o un altro aspetto, ma in ogni caso c'è concordanza nel ritenere importante un approfondimento della qualità delle relazioni tra l'adolescente e la famiglia (Barker, 1990; Zavattini, 1992; Lis, 1993; Lis, Venuti, De Zorolo, 1995; Telleschi, Torre, 1997; Marcelli, Braconnier, 1999; Ammaniti, 2002). L'interesse deve esser focalizzato sul processo di distacco affinché si possa comprendere autenticamente il disagio del ragazzo, delle eventuali cause scatenanti o dell'evoluzione che può aver avuto all'interno del contesto familiare o un altro campo d'indagine è il gruppo dei pari ed il rapporto con esso. Marcelli e Braconnier (1999) sottolineano come i coetanei siano considerati una "seconda famiglia". Il gruppo permette più facilmente quel progressivo distacco dalle figure genitoriali e, in genere è una ricca fonte di identificazioni a cui far riferimento nel processo di costruzione della propria identità. Esso comunque può avere anche effetti negativi: l'adolescente, privo di saldi punti di riferimento, può accostarsi con relativa sensibilità al membro più deviato del gruppo, o mettere in atto comportamenti gruppali disadattivi senza comprendere il significato.

Oltre agli aspetti sopra citati, Lis (1993) allude all'importante valutazione delle pulsioni sessuali e alle problematiche masturbatorie, nonché alla spinta verso l'autonomia adulta. Pur riconoscendo l'evidente rilevanza dell'indagare questi aspetti, non bisogna finire a cercare di "sapere a tutti i costi". Una volta strutturata una solida alleanza, sarà l'adolescente stesso a portare in campo i temi che per lui sono più importanti, e permetterà di approfondirne le questioni connesse.

A conclusione, ritengo opportuno dare importanza alla fase di restituzione, quella che Telleschi e Bembo definiscono come "la possibilità di riconoscersi e sentirsi riconosciuto nella propria storia e nelle proprie difficoltà". L'utilità della restituzione si ha attraverso un linguaggio adeguato, non tecnico, capace di stimolare il ragazzo e permettendogli di entrare in contatto con le parti problematiche di sé. Non solo, il giovane si rivelerà un alleato ancora più prezioso del terapeuta se gli sarà data la possibilità di conoscersi e capirsi attraverso l'immagine di sé che gli viene rimandata in un lavoro interattivo, immagine fatta di comprensione degli stati d'animo, rielaborazioni di pensieri e chiarimenti di emozioni non sempre definite. A questo proposito, inoltre "è necessario che il terapeuta abbia presente quanto può esser messo in gioco di sé nella situazione relazionale, in modo da ridurre ed eliminare rischi di giochi manipolativi e seduttivi reciproci."

Progetto C.I.C. (Centro di informazione e consulenza)

I principi sopra enunciati circa il delicato contatto psicologico/clinico con l'adolescente ed i genitori, sono gli stessi che fungono da pilastro per gli Sportelli d'Ascolto nelle scuole, che fanno parte di un'iniziativa più ampia quale quella dei C.I.C (Centri di Informazione e Consulenza).

Questo progetto (istituito con la legge 106 del 26 giugno 1990) è inserito nella logica di uno spazio protetto all'interno del contesto scolastico, ed è rivolto ai ragazzi e agli adulti con essi coinvolti (insegnanti e genitori) alle prese con gli stravolgimenti dell'adolescenza. I C.I.C si articolano in Sportelli d'Ascolto e incontri tematici rivolti a insegnanti, genitori, classi o gruppi di allievi. Assodata la tesi per cui l'adolescenza è una fase di vita critica, intrinsecamente connotata da processi trasformativi, che non coinvolge solo il ragazzo ma anche la rete di adulti a cui essi fanno capo, è divenuta un'urgenza non trascurabile la necessità di inserire una dimensione di aiuto psicologico all'interno del sistema scolastico.

La scuola infatti, rappresenta l'ambiente di elezione sia per l'individuazione di situazioni di crisi (fisiologiche e patologiche), sia per la loro risoluzione. Il giovane che vive questo delicato momento di fragilità con confusione e disorientamento, sa che nel contesto scolastico vi è l'opportunità di essere ascoltato e aiutato. Tra le problematiche più diffuse si riscontrano difficoltà legate al mondo:

  • Della scuola, come nel caso di insuccesso scolastico, dispersione e bullismo;
  • Della famiglia, ad esempio la separazione dei genitori o la presenza di complicazioni psicopatologiche di uno dei due;
  • Dei pari, nel caso di amicizie e relazioni particolari.

Ma anche l'esperienza stessa della pubertà, il rapporto con un corpo "straniero", il ricorso a comportamenti a rischio, come abuso di alcol e droga (Hendry, Kloep 2003). Tutte queste delicate questioni possono essere condivise più facilmente in un ambiente "familiare", quale quello scolastico e con un "esperto esterno" in grado di riconoscere e accogliere le sue richieste, di aiutarlo a far chiarezza e offrendo lui la possibilità di prevenire e/o affrontare il disagio psicologico. Infatti, lo Sportello d'Ascolto è anche un prezioso strumento con cui far prevenzione rispetto alle situazioni di disagio e sofferenza (fobie scolastiche, disturbi psicosomatici, alimentari...) e può rappresentare il primo contatto con una figura d'aiuto, e nei casi di situazioni più a rischio, quel collegamento verso una presa in carico più ampia e articolata all'interno di adeguate strutture territoriali. All'interno della scuola, il colloquio non ha fini terapeutici, ma anzi di counseling, in quanto l'obiettivo è aiutare i ragazzi ad individuare le proprie arie problematiche e valorizzare le risorse (a favore di un sano sviluppo della consapevolezza corporea, emotiva e mentale). Vi si possono indirizzare anche i genitori che si trovano alle prese con la difficile gestione della crisi adolescenziale dei loro figli, e gli insegnanti che intendono riflettere sul rapporto con gli studenti che mostrano un disagio, lavorando quindi a favore di un clima di classe favorevole.

Il progetto C.I.C si fa portavoce e promotore della cultura del benessere psicofisico e ciò si sposa perfettamente con il fatto che la scuola, non solo è sede di formazione culturale, ma anche di quella umana; in quest'ottica tale attività di ascolto e prevenzione persegue l'obiettivo di migliorare la qualità di vita degli studenti, insegnanti e genitori favorendo il benessere e promuovendo quelle capacità relazionali che portano ad una comunicazione assertiva e collaborativa.

Poiché lo Sportello d'Ascolto si offre come un servizio di promozione della salute (intesa come benessere fisico, psichico e socio-relazionale) si perseguono fini quali:

  • Incrementare l'autostima e il senso di efficacia personale;
  • Stimolare e favorire le life skills;
  • Migliorare la comprensione di sé;
  • Sollecitare la responsabilità delle proprie scelte;
  • Migliorare le capacità relazionali;
  • Migliorare la qualità di vita a scuola;
  • Fornire agli studenti uno spazio per riflettere e cercare alternative, attivare risorse e utilizzare strumenti validi per la risoluzione del problema, prevenendo e gestire eventuali difficoltà scolastiche;
  • Realizzare interventi di promozione e prevenzione della salute e del benessere psicologico nelle classi, creando spazi di comunicazione e ascolto per docenti e studenti;
  • Fornire una rete informativa e di sostegno sulle difficoltà comportamentali degli alunni;
  • Accompagnare e sostenere insegnanti e genitori nella relazione con ragazzi in situazioni di difficoltà e fornendo supporto per la loro relazione.

I colloqui avvengono sempre in orario scolastico, e gli appuntamenti agli studenti (che possono presentarsi da soli, in coppia o in piccoli gruppi) vengono fissati in maniera tale da non cadere in corrispondenza di verifiche e interrogazioni. Ciò avviene scrivendo il loro nome e la classe di appartenenza su un modulo apposito che la scuola si impegna a mettere a disposizione in un luogo concordato nell'assoluto rispetto della privacy.

Il progetto C.I.C., come definito precedentemente, offre l'opportunità non solo di uno spazio di ascolto, ma anche di strutturati incontri tematici tenuti da personale esperto su gruppi classi di allievi o di genitori e/o insegnanti, in merito a una o più delle seguenti aree di educazione alla salute, tenendo conto delle necessità che possono presentarsi durante l'anno:

  • Prevenzione del bullismo e abuso sessuale;
  • Prevenzione nei confronti di uso e abuso di sostanze psicoattive e della dipendenza dal gioco d'azzardo;
  • Prevenzione del disagio e dispersione scolastica;
  • Prevenzione dei disturbi della condotta alimentare;
  • Educazione sessuale e affettiva;
  • Educazione alla relazione e prevenzione dei comportamenti a rischio;
  • Integrazione degli alunni stranieri;
  • Integrazione degli alunni disabili.

La realizzazione di questi Centri di Informazione e Consulenza permette l'adempimento del ruolo della scuola come agenzia di formazione e garante del benessere dei soggetti di cui si fa carico, a partire dal sostegno della rete sociale attorno al singolo. Le attività di informazione e ascolto psicologico, consentono una crescita e tutela di tutti gli attori coinvolti (studenti, genitori, insegnanti) in un clima relazionale accogliente, cooperativo e costruttivo.

Ciascuno è stimolato nell'ascolto attivo di sé e dell'altro: ciò facilita la conoscenza e lo sviluppo delle proprie e altrui potenzialità.

 

PUBBLICITÀ

Scritto da

Dott.ssa Clarissa Guercioni

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