Disabilità: come relazionarsi?

La promozione dell'integrazione sociale della persona passa attraverso la messa in discussione della dicotomia normalità VS disabilità.

25 LUG 2016 · Tempo di lettura: min.
Disabilità: come relazionarsi?

Nel tempo si sono susseguite varie definizioni e classificazioni che hanno avuto come comune caratteristica il porre la disabilità come polo opposto a quello della normalità. Solo nel 1999, l'Oms ha divulgato l'ICIDH-2, un sistema di classificazione che, per la prima volta, introduce la dimensione della partecipazione sociale: la disabilità non è più considerata come un limite personale che deve essere curato e che necessita di assistenza medica, bensì un insieme di condizioni che interagiscono con fattori ambientali e sociali.

Nel 2001, l'OMS divulga l'ICF (La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) che pone l'attenzione non più sulle persone bensì sulle condizioni di vita in relazione al contesto ambientale: disabilità è, dunque, una condizione di salute in un ambiente sfavorevole (Colombo, 2013).

Disabilità: dal modello medico al modello sociale

Questa nuova classificazione segna un passaggio fondamentale di prospettiva: dal modello medico al modello sociale. Il modello medico, infatti, categorizza tutte le menomazioni, disabilità ed handicap attraverso diagnosi specifiche che, spesso, sono associate a specifici trattamenti ed interventi simili. Una possibile conseguenza di questo modello, che sembra essere ancora intimamente legato alla nostra cultura, è quello di guardare alla persona non come avente una qualche disabilità bensì come disabile in modo ontologicamente dato. In questi termini la diagnosi è una condanna: la persona èdisabile e questa condizione di non ritorno pone, inevitabilmente, il polo normalità ed il polo disabilità su due piani di potere diversi. La definizione di disabile crea, così, automaticamente una distanza relazionale per cui non è più possibile un incontro tra due persone bensì tra una persona e la condizione patologica di un'altra.

Questo pone la persona al di fuori delle proprie scelte personali e delle proprie responsabilità che vengono assunte da coloro che sono considerati più capaci e competenti: i genitori, gli educatori, il medico di base, gli specialisti. Diventa quindi fondamentale per tutti gli operatori che erogano servizi, siano essi di carattere riabilitativo, assistenziale o educativo avere come obiettivo cardine la promozione dell'integrazione sociale della persona. Questa integrazione può avvenire nella costruzione di un rapporto paritetico:

"Mi pare che quando un'altra persona sta realmente esprimendo se stessa e la sua esperienza io non mi sento (…) diverso da chi mi sta di fronte (…), sento come se in quel momento il suo modo di guardare alla sua esperienza, per quanto distorto possa essere, è qualcosa che io posso osservare che ha la medesima autorità e validità rispetto al modo in cui io vedo la vita e l'esperienza. In un certo senso mi sembra che quella sia veramente la base d'aiuto. (…) E sento fortemente che c'è un reale senso di uguaglianza tra noi due" (Kirschenbaum, Henderson, 1989).

In questi termini si comprende come sia indispensabile abbandonare la dicotomia normalità VS disabilità e comprendere intimamente quanto nella relazione influisca come noi costruiamo il concetto di disabilità e come ci poniamo con l'altro. Per Buber la relazione è reciprocità: non è riduzione dell'altro né all'oggetto né all'io.

"Mi pare di avere imparato dalla mia esperienza che quando ci possiamo incontrare, allora si verifica l'aiuto ma esso è un effetto secondario." (Kirschenbaum, Henderson, 1989).

PUBBLICITÀ

Scritto da

Dott.ssa Claudia Moretto

Lascia un commento

PUBBLICITÀ

ultimi articoli su psicologia sociale e legale

PUBBLICITÀ