Conflitto di coppia genitoriale e Mediazione Familiare

Cos'è esattamente un mediatore familiare? A cosa serve e quando entra in campo? E come si struttura un intervento di mediazione?

3 GIU 2020 · Tempo di lettura: min.
Conflitto di coppia genitoriale e Mediazione Familiare

La parola conflitto deriva dal latino conflictus e dal verbo confligere, composto di cum (con) e fligere. L'etimologia rimanda al concetto di incontro, di confronto. "Con" fa pensare al mettere in comune qualcosa, alla condivisione di un bene, materiale e/o spirituale, interiore.

Tuttavia, nella realtà quotidiana il conflitto viene spesso schivato, perché fa pensare immediatamente all'aggressività, concetto in realtà normale, nella sua forma adattativa, ma che spesso incute timore, visto non di rado come cosa socialmente inaccettabile per la civile convivenza degli esseri umani. Ma l'aggressività può assumere diverse forme: nel normale adattamento abbiamo l'esigenza di esprimerla per far capire all'altro che qualcosa non ci sta bene e cerchiamo, allora, di far valere la nostra opinione con quel quid in più di spinta, aumentando il tono della voce, ponendoci con una espressività dura, tenendo i pugni stretti; l'espressione dell'aggressività, però, se non correttamente gestita, può indisporre l'altro interlocutore e spingerlo a chiudersi in se stesso, ad assumere una posizione interiore rigida, dunque piuttosto che ascoltare meglio i nostri bisogni, l'altro li respinge e assume un ruolo di difesa.

Per farsi ascoltare meglio bisognerebbe modulare l'aggressività interna, il che non implica soffocare la rabbia, bensì esprimerla in modo da non comunicare un messaggio di prevaricazione dell'altro. Dobbiamo cambiare i nostri obiettivi: esprimo la mia rabbia perché voglio essere compreso, non per sottometterti alle mie volontà. Ecco che, cambiando l'impostazione, il nostro comportamento assume forme e modalità totalmente differenti. Perché diciamo questo? Per il semplice fatto che il linguaggio non verbale, dunque tutto ciò che esprimiamo senza bisogno di parole (mimica, gesti, atteggiamento, intonazione..) tende spesso ad avere una maggiore influenza su chi ci sta di fronte; possiamo risultare totalmente antipatici a qualcuno senza aver detto una sola parola (magari anche per il fatto di non essere dei grandi oratori!). Questo può dipendere da una miriade di fattori, tra i quali rientrano le esperienze individuali passate, l'influenza che queste hanno avuto su di noi e come abbiamo appreso a rispondere alle circostanze per affrontare ciò che solitamente ci accade.

In altre occasioni, poi, esprimiamo l'aggressività senza cambiare più di tanto l'intonazione e la mimica, ricorrendo piuttosto a modalità passive, che si basano su un approccio manipolativo: cambio le circostanze in modo da suscitare in te sensi di colpa, oppure da farti apparire come carnefice o persona inadeguata agli occhi di altri. Magari perché nel senso comune, come dicevamo, l'aggressività in senso stretto non è socialmente accettabile, magari perché nel proprio contesto di origine e nell'esperienza individuale di vita si è fatta esperienza negativa dell'aggressività: o non era possibile esprimerla, perché creava destabilizzazione generale, o quando veniva espressa era troppo violenta ed irruente, quindi era distruttiva e via discorrendo. Anche le modalità passivo-aggressive, tuttavia, sono scarsamente funzionali al farsi comprendere: sono perlopiù orientate alla prevaricazione, alla coercizione, all'assumere una posizione privilegiata rispetto all'altro.

Ecco che i conflitti, non di rado, proprio nel modo in cui si esprimono, diventano comunicazioni paradossali: circoli senza risoluzione, che si perpetuano continuamente. E questo possiamo benissimo immaginarlo se pensiamo a due persone che si urlano contro a vicenda senza capire una parola di ciò che si dicono oppure strumentalizzando le parole dell'altro per costruire castelli di vittimismo e colpevolizzazione. Di certo questa non è la modalità ottimale per un confronto… i sentimenti prevalenti sono la rabbia e la frustrazione: quest'ultima motivata dal fatto che è impossibile accedere all'altro.

Il conflitto riguarda, allora, la contesa di un bene e non la condivisione. Questo è quello che accade anche in campo di separazione e divorzio. La coppia, alla sua formazione, stringe un patto implicito, del quale entrambi non sono coscientemente consapevoli: tale patto riguarda i bisogni di ciascuno, le loro paure e la funzione relazionale che ognuno dei due riveste nel rapporto, per gestire le paure assicurandosi la soddisfazione dei bisogni. Un accordo perfetto, un puzzle che si incastra proprio bene e tutto questo dietro all'innamoramento e a quello che viene dopo, nel momento in cui ci si accorge anche dei difetti del partner ma si decide che l'amore è più importante.

Ma possiamo dire anche che dopo la fase dei prosciutti sugli occhi si apre un crocevia di fronte a noi: prendere o lasciare. Se prendi, allora accetti tutto il pacchetto… se non prendi è perché quel patto in qualche modo è stato tradito. Per tradimento di un patto non si rimanda specificamente al tradimento in senso di relazione extra-coniugale; il riferimento è a quel puzzle che prima si incastrava proprio bene, mentre dopo si sono innescati circuiti rigidi che non hanno portato alla crescita della coppia ed alla crescita individuale di ciascuno. Hanno portato soltanto al ristagno di una data situazione e magari qualcuno è anche venuto meno al proprio ruolo: se di solito l'altro è per me un consolatore nei momenti del bisogno, adesso si rifiuta totalmente di ascoltare.

Quando si crea una simile circostanza, al crocevia, ogni scelta implica delle conseguenze…se decidiamo di prendere, non solo accettiamo l'altro, ma dobbiamo intraprendere un percorso di crescita, che porti la coppia a modificare le sue rigidità, che induca le persone ad assumere nuovi punti di vista sulle cose, spesso attraverso una auto-esplorazione interiore. Alcuni potrebbero aver bisogno di una terapia di coppia perché vorrebbero ricostruire il rapporto ma non sanno da dove partire, altri riescono a capire subito il problema e ad attivare delle risorse per affrontarlo. Se, invece, decidiamo di lasciare, si aprirà un ulteriore percorso, complesso anche quanto la terapia di coppia, ma gestibile diversamente.

La terapia di coppia è un intervento senza scadenze: ci si prende il tempo che si vuole per capire e lavorarci su…si tratta di un processo di elaborazione e ricostruzione che richiede le sue tempistiche, in base alla coppia, agli individui.

Nel caso della separazione, se si hanno dei figli e/o dei beni patrimoniali in comune, in base al caso può essere più o meno difficile negoziare degli accordi in merito a questioni importanti: quanto versare per il mantenimento, come dividere i beni immobili, come procedere alla divisione degli altri beni materiali che spettano di diritto ad entrambi, ma ben più importante come essere genitori in maniera paritetica, funzionale, collaborativa, senza ledere i diritti ed i bisogni materiali e psicologici dei figli ancora minorenni, ma anzi cooperando alla loro crescita sana e serena il più possibile.

Certo, perché la separazione è un processo molto difficile da digerire, sia per i due, che adesso non sono più un noi, sia per i figli, che vedono sotto i loro piedi sgretolarsi la terra su cui avevano costruito le loro certezze. A meno che, i genitori non facciano di tutto per garantire loro un valido compromesso tra stabilità e cambiamento, operazione dura da compiere, specialmente di fronte a rabbia, rancore, stati depressivi.

Si tratta, qui, di trasformare la dimensione del noi: prima della separazione noi comprendeva la coppia di fatto e la coppia genitoriale, due sottosistemi distinti ma collaborativi. Adesso la coppia di fatto non c'è più e non è affatto semplice voltare pagina, come si suol dire, e riscrivere un nuovo racconto. Occorre riadattare le proprie esigenze, i propri bisogni interni, la propria quotidianità alle nuove circostanze: se cambiano le circostanze, cambia la vita, dunque è una questione di "contesto". Mettiamo solide radici nel terreno in cui poggiamo… quando abbiamo fatto crescere un albero e abbiamo riposto in esso aspettative ed emozioni, come possiamo impegnarci sin da subito in una nuova semina senza arrabbiarci e scoraggiarci?

Il problema è che in questo contesto entrano in campo le nostre emozioni ed esse possono generare conflitti distruttivi. Dobbiamo, pertanto, imparare a mettere in campo i conflitti in maniera costruttiva e questo può essere favorito dalla figura del Mediatore Familiare. Questi può essere un avvocato, se si tratta perlopiù di questioni patrimoniali, ma è invece uno Psicologo quando vanno sciolti dei nodi complessi come le questioni emotive e relazionali, delle quali un avvocato non può occuparsi.

Il mediatore Familiare è una figura terza, che opera all'interno del sottosistema della coppia genitoriale, come agente neutrale; il suo compito è quello di aiutare i due a negoziare gli accordi di cui hanno bisogno, per affrontare nel modo più sano possibile la responsabilità che li accomuna: la co-genitorialità, nell'interesse e nella tutela dei figli.

Per fare ciò il mediatore dovrà supportare le parti, senza tuttavia imporre loro delle scelte, senza prendere le parti dell'uno o dell'altro, ma favorendo una comunicazione adeguata, esplorando i bisogni ed il vissuto di ciascuno, nell'ottica di una maggiore apertura reciproca all'altro, cosicchè il paradosso del conflitto distruttivo diventi compromesso di un conflitto costruttivo. Si tratta, dunque, di un intervento breve, solitamente di 10 incontri, caratterizzato da una fase di valutazione iniziale, poi della fase di negoziazione e, infine della conclusione con stipula di un "contratto" da parte della coppia genitoriale, all'interno del quale ciascuno si impegna nei confronti dell'altro per ricostruire una vita senza doversi sobbarcare nelle scelte in merito ai figli il peso dei rancori e dei bisogni irrisolti.

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Scritto da

Dott.ssa Gabriella Comi

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