Bloccata in una magistrale/incubo senza fine

Inviata da Mordred · 30 lug 2021

Salve. Vi scrivo per avere un orientamento su cosa fare. Sono bloccata nella mia vita universitaria ormai dal lontano 2017, quando dopo una triennale estenuante e senza nessun vero momento di pausa e di riflessione mi iscrivo alla magistrale come una sorta di dovere da compiere, di destino ineluttabile. Ormai i miei familiari avevano deciso che dovessi fare l'insegnante - ignorando la mia volontà e i miei dubbi al riguardo, al punto tale che forse credevo di volerlo anch'io -, sicché mi butto, trascinata dalla corrente del "tanto non puoi fare altro con quella laurea se ti limiti alla triennale". Inizialmente mi sento un po' spaesata, trattandosi di corsi dall'impostazione totalmente diversa da quella a cui ero abituata, ma la curiosità prevale e il primo semestre sembra andare bene. Presto però sorgono i problemi. Comincio a sentirmi stanca di frequentare le lezioni, disinteressata, apatica; vado avanti per pura inerzia. Non riesco a studiare, anche in un ambiente privo di distrazioni di qualunque tipo; di conseguenza non do esami se non uno, che passo per miracolo. Al secondo anno ho un vero e proprio breakdown con ideazioni suicidarie. Anche il corpo ne risente: entro ed esco dall'ospedale un giorno sì e l'altro pure. Allarmata, mia madre accetta finalmente di mandarmi da uno psicologo, che tuttavia non mi è per niente di aiuto - ricordo che mi disse, con fare parecchio spazientito: "Prima pensa a finire la magistrale, poi risolvi la crisi esistenziale". Cosa?! Se il problema è proprio che non riesco a finire! Alla lunga si dimostra anche inappropriato - e squallido - nei miei confronti, così decido di non andarci più e passare a una psicologa. Con lei nei primi tempi mi trovo bene, mi sento ascoltata e compresa riguardo la mia storia familiare (ci vorrebbe un altro post solo per quella: tra violenze, abusi psicologici, povertà, abbandono...c'è il materiale per un'epopea), ma arrivate al problema universitario sono di nuovo davanti a un muro: mi fa vergognare tremendamente e sentire in colpa con l'argomentazione che devo muovermi a finire e devo pure smetterla di lamentarmi perché "oggi il lavoro è un lusso e c'è una caterva di gente che darebbe qualunque cosa per fare l'insegnante". Dettomi nella stessa seduta in cui, disperata, le ho confessato di avere da tempo quelle idee sul togliermi la vita. Ne esco peggio di prima. Partecipo solo a un altro paio di sedute dopo quell'evento, poi mi defilo. Nel frattempo si arriva al periodo del primo lockdown. Con una forza di volontà che non mi spiego - ero felice di non dover vedere più nessuno? - riesco a dare tutti gli esami che mi mancano, uno dopo l'altro. A questo punto quindi resta solo la dannata tesi di laurea. La mia salute fisica e mentale, tuttavia, si deteriora ulteriormente e sopraggiungono, per la prima volta nella mia vita, gli attacchi di panico. Non riesco a mangiare, rifiuto il cibo come se qualunque boccone mi potesse uccidere; arrivo al sottopeso. Mia madre dunque mi costringe ad andare da uno psichiatra, che mi prescrive antidepressivi e ansiolitici a seguito della diagnosi di "ansia generalizzata con forte tendenza alla somatizzazione". Ne vengo buttata giù come in un baratro. Non ho la forza di fare nulla, io stessa non sono più nulla. Passo le giornate a letto, mentre di notte sono tormentata da insonnia, incubi, palpitazioni. Gli unici momenti di sollievo in quell'inferno mi arrivano quando assumo le benzodiazepine, tanto che finisco per diventarne dipendente. Con grande fatica ne esco e smetto di assumere psicofarmaci.
Siamo al secondo lockdown. Prometto alla relatrice di scrivere il primo capitolo della tesi e inviarglielo. Inutile dirlo, non riesco a mettere nero su bianco neppure un rigo e sparisco dai radar. Mi do a un'altra dipendenza, stavolta, quella affettiva. E in essa sono ancora invischiata.
La mia famiglia ha esplicitato in più occasioni di disprezzarmi in quanto fallimento sia dal punto di vista umano (i miei atteggiamenti che non si confanno a una ragazza perbene mi hanno resa indegna ormai del loro amore) sia universitario/professionale. Mia madre, tormentata dal salvare le apparenze e dal liberarsi al più presto di me, mi pressa quotidianamente, a volte in modo aggressivo, a volte giocando col mio senso di colpa, sperando così di spronarmi. Ma non ce la faccio.
Inevitabilmente ogni santo giorno mi alzo e mi dico che quindi sono una persona orribile, ingrata, pigra e viziata; perché non riesco a essere normale, un adulto funzionale? Perché non ce la faccio né a smettere definitivamente con la magistrale né a continuare per portarla a termine, seppure per nulla convinta di essa? Probabilmente ho paura di quello che dovrebbe venire dopo in un caso o nell'altro, penso, per cui mi ostino a vivere in un limbo fatto solo di dolore e disprezzo per me stessa. E mentre i miei coetanei vanno avanti, costruiscono le loro vite forti del sapere chi sono e cosa vogliono, io sono qui, verso la fine dei miei vent'anni, a torturarmi, a diventare qualcosa senza forma: non so chi sono (difatti modello la mia personalità per piacere alla persona con cui sto in quel momento) e non so affatto cosa voglio. Quando finii il liceo ed ero piena di speranza per il futuro la mia prima scelta fu la facoltà di lingue: volevo rapportarmi ad altre culture, andare all'estero, lontano dalla mia famiglia disfunzionale; poi mi sono fatta influenzare proprio da quest'ultima e ho abbandonato, in quanto mi è stato detto: "Tanto non andrai da nessuna parte! E' troppo pericoloso, tu non hai idea di che mondo c'è fuori! Non sei capace di badare a te stessa neppure qui, figurati all'estero. Finirai male. Scegli qualcosa di più tranquillo ed economicamente sicuro. Poi non vorrai mica lasciarci da soli, dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per te". Il risultato si è visto. Adesso non saprei neppure se ho davvero voglia di riprendere quella strada. Non so niente di niente. Ho il vago desiderio di tornare in terapia e capire se oltre all'ansia generalizzata c'è qualcos'altro che mi procura tanta sofferenza e mi blocca (un disturbo della personalità, forse?), ma non posso permettermelo al momento. Come dovrei muovermi?

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Miglior risposta 31 LUG 2021

Gentile Mordred,
Il problema della laurea, per quanto urgente, mi sembra solo una delle conseguenze dovute alla sua storia familiare, che lei sintetizza con poche ma pesantissime parole: violenze, abusi psicologici, povertà e abbandono. Inoltre sua madre sembra avere un ruolo preponderante nella sua esistenza, anche in contrasto con le sue aspirazioni e i suoi desideri.
Affronti con coraggio e con fiducia queste tematiche nella prossima analisi che le consiglio vivamente di intraprendere quanto prima. Quando avrà recuperato un po’ di sicurezza, potrà riprendere i suoi progetti, portarli a termine e/ o modificarli in base alla sua vera vocazione, e non alle direttive della sua famiglia, dalla quale sarebbe opportuno separarsi appena possibile.
Un cordiale saluto
Dott.ssa Elisabetta Falcolini

Dott.ssa Elisabetta Falcolini Psicologo a Sansepolcro

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2 AGO 2021

Carissima,
leggendo le tue parole sento io stessa tristezza e rammarico per tutte queste esperienze così dolorose, per la sofferenza che hai provato, per il tuo non sentirti accolta e compresa, vissuti che ancora oggi ti bloccano e ​che non ti fanno vedere nemmeno un futuro possibile.

Scrivi questa frase che mi sembra essere una sorta di riepilogo: "Mi iscrivo alla magistrale come una sorta di dovere da compiere, di destino ineluttabile. Ormai i miei familiari avevano deciso che dovessi fare l'insegnante - ignorando la mia volontà e i miei dubbi al riguardo, al punto tale che forse credevo di volerlo anch'io..."

Eppure c'è stato un momento in cui avevi speranza per il tuo avvenire, sapevi quale fosse la direzione da prendere.

Ma se chi ti ha messo al mondo e fatto crescere, ti dice che non puoi farcela, che non te lo meriti, che il mondo fuori è brutto e tu non saresti in grado di affrontarlo, che sei irriconoscente perché stai pensando di andartene, comprendo che sia davvero molto difficile prendere le distanze da questa immagine, che hai fatto tua e che ti porta a comportarti in modo coerente all'idea che la tua famiglia ha di te.

È difficile in questo breve spazio, offrirti un supporto che possa essere esaustivo.
Mi sento solo di dirti che non credo che quel destino sia ineluttabile ma che tu possa avere la possibilità di scegliere la tua strada, quella che TU vuoi per te.
Attraverso un percorso che ti aiuti in primis ad avere consapevolezza di te, delle tue risorse e qualità, a ritrovare quel senso di autoefficacia che ti permetta di costruire il tuo futuro esattamente come TU lo vorresti, a ritrovare il senso e il significato della tua preziosa vita.

Un abbraccio "virtuale"
Melania
Dott.ssa Melania Rivalta - Psicologa

Dott.ssa Melania Rivalta Psicologo a Ravenna

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2 AGO 2021

Gentile,

dalle sue parole emerge tanta insoddisfazione per la sua vita. Da questo, possiamo trarre non solo l’aspetto negativo, bensì anche quello positivo. In effetti, ci vuole forza anche per protrarre una situazione così infelice. Ma forse, come suggeriscono le sue parole, è arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza su ciò che sta vivendo. Il filo rosso che lega tutto il suo discorso sembra riguardare l’aspettativa e la dipendenza dall’Altro. In effetti, così esordisce: “mi iscrivo alla magistrale come una sorta di dovere da compiere, di destino ineluttabile. Ormai i miei familiari avevano deciso che dovessi fare l'insegnante - ignorando la mia volontà e i miei dubbi al riguardo, al punto tale che forse credevo di volerlo anch'io -, sicché mi butto, trascinata dalla corrente del "tanto non puoi fare altro con quella laurea se ti limiti alla triennale””. La sua prima reazione, fu quella dello spaesamento. La mancanza e la difficoltà a trovare un orientamento, una bussola, possiamo pensare fosse legato proprio al fatto che quella situazione, in fondo, non l’aveva scelta lei ma era frutto del desiderio dell’Altro, dei suoi genitori. Dopo poco, cominciano le difficoltà. La difficoltà nella prestazione cognitiva, nella preparazione degli esami, era - ed è - con tutta probabilità legata al disinteresse per ciò che stava facendo. Un fatto che mi sembra alquanto naturale: in effetti, la preparazione e la performance risultano di gran lunga superiori quando, ad un “dovere” (come il sostenere un esame all’università), associamo l’interesse e la passione per ciò che stiamo facendo. Passione che evidentemente lei non provava. Sono le parole che lei stessa utilizza: “disinteressata, apatica”. Più va avanti, più le cose peggiorano. E anche il corpo comincia a dire la sua. O meglio, è la sua psiche che prova a lanciarle dei messaggi attraverso il corpo. Forse, non avendo fatto luce su tutta l’insoddisfazione che stava provando, magari reprimendola, la psiche si è ribellata decidendo di passare per il canale corporeo. Purtroppo, il suo disagio rientra anche in un determinato tempo storico che stiamo vivendo. Un tempo in cui il principio di prestazione fa da padrone e dove il “lavoro è un lusso”. Frasi del genere, tendono a rimuovere il fatto che il lavoro (anche lo studio), dovrebbe, per quanto possibile, corrispondere a ciò che siamo. E’ evidente che ci sono alcuni aspetti della vita su cui non abbiamo un grande controllo. Ma su altri ce l’abbiamo e come. Ad esempio, se le passioni si raggiungono o meno, quello dipende esclusivamente da noi. E collocarsi in un percorso universitario che non risponde e corrisponde alle nostre inclinazioni, al nostro desiderio, è un atto quasi masochistico. Una violenza verso noi stessi. Dunque, è perfettamente comprensibile tutta la sofferenza e la rabbia verso chi avrebbe dovuto comprendere questo stato di cose. Purtroppo, a volte si dimentica la legge elementare che la testa si apre solo se abbiamo aperto prima il cuore. Dopodiché è molto interessante, il fatto che il lockdown le abbia fornito quella forza e volontà per dare gli esami. Chissà, forse come suggerisce lei stessa, una situazione in cui tutti eravamo a fare i conti con noi stessi, “isolati”, le ha procurato quell’energia che si è incanalata proprio nella preparazione degli esami. Eppure, parla di un nuovo blocco. Arriva il momento della tesi, dunque la parte finale del percorso, e la psiche, di nuovo mediante il corpo, segnala un nuovo (ma in fondo lo stesso) allarme. L’attacco di panico è in effetti l’estrinsecazione radicale di un’insoddisfazione. È una grande metafora: tutti gli organi vanno per conto loro, non c’è più nulla che tiene insieme. Vi è un distacco mente/corpo; ovvero quello che accade a lei da diversi anni ormai, dove probabilmente ha separato, scisso in modo violento ciò che desiderava da ciò che gli altri si aspettavano da lei (o ciò che pensava gli altri si aspettassero da lei). Comincia una dipendenza, farmacologica prima e affettiva successivamente. La dipendenza è un ulteriore elemento che ci fa pensare e lanciare un’ipotesi: ovvero che il suo dolore, deriva dal fatto che sta affidando la vita a qualcun altro. Che sia relazionale o altro, la dipendenza è un affido-a. Un prendere la propria esistenza e consegnarla nelle mani di un Altro. Se questo può avere un ritorno rispetto ad una sicurezza, quest’ultima si rivela e si rivelerà poi del tutto superficiale e illusoria. Perché la sua psiche, le sta chiedendo da diverso tempo tutto il contrario: non di affidarsi-a, ma di prendere in mano la sua vita, con coraggio e desiderio, per seguire le sue emozioni. La prima grande dipendenza a cui possiamo pensare, risale a tempi lontani. In fondo, è lecito pensare che la più grande dipendenza sia quella verso la sua famiglia. Verso i loro giudizi e le loro idee. Questo emerge chiaramente dalle sue parole. Nel momento in cui aspetti della sua vita stanno collassando, la questione sembra essere: “La mia famiglia ha esplicitato in più occasioni di disprezzarmi in quanto fallimento sia dal punto di vista umano (i miei atteggiamenti che non si confanno a una ragazza perbene mi hanno resa indegna ormai del loro amore) sia universitario/professionale”. Per quanto possa essere doloroso tutto questo (il non sentirsi apprezzati dalla propria famiglia), sarebbe interessante chiedersi al di là del giudizio familiare, lei cosa pensa. Cosa desidera. Cosa prova. Lei non è né una persona “orribile”, né “ingrata”, né pigra” o “viziata”. Credo abbia solo un’idea distorta su cosa significhi essere adulti e funzionali. Al centro vi è una grande angoscia, come scrive lei stessa: “Probabilmente ho paura di quello che dovrebbe venire dopo in un caso o nell'altro, penso, per cui mi ostino a vivere in un limbo fatto solo di dolore e disprezzo per me stessa”. Il limbo è ciò che la tiene fuori dalla vita, fuori dalle sue emozioni. E se è fuori se stessa, il risultato non può che essere ciò che descrive: “diventare qualcosa senza forma”. Verso la fine del suo racconto, la parte più sincera e dolorosa emerge, ed è questa che dobbiamo ascoltare: “non so chi sono (difatti modello la mia personalità per piacere alla persona con cui sto in quel momento) e non so affatto cosa voglio. Quando finii il liceo ed ero piena di speranza per il futuro la mia prima scelta fu la facoltà di lingue: volevo rapportarmi ad altre culture, andare all'estero, lontano dalla mia famiglia disfunzionale; poi mi sono fatta influenzare proprio da quest'ultima e ho abbandonato, in quanto mi è stato detto: "Tanto non andrai da nessuna parte! E' troppo pericoloso, tu non hai idea di che mondo c'è fuori! Non sei capace di badare a te stessa neppure qui, figurati all'estero. Finirai male. Scegli qualcosa di più tranquillo ed economicamente sicuro. Poi non vorrai mica lasciarci da soli, dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per te". Il risultato si è visto”. Questo è il punto incandescente della sua sofferenza. Il suo errore (nel senso di idea distorta, che abbiamo tutti, per carità, e per fortuna si correggono), è stato probabilmente quello di aver affidato la sua vita a quella dell’Altro. Non è riuscita ad operare un vero distacco dalla sua famiglia, a “ereditare” in modo giusto. Si è lasciata aspirare dalle loro aspettative, dai loro “ideali”. In questo modo ha perso il suo desiderio, il suo progetto. Ha smarrito una strada che non ha mai intrapreso. Vivere non è rispondere ad una serie di comandamenti preordinati. E’ conoscere se stessi e far di tutto per realizzare ciò che siamo. Per far questo, è necessaria una separazione, un taglio simbolico con l’Altro. E’ necessario che lei capisca, accetti e si dica che è una persona totalmente diversa dai suoi genitori; che ha delle voglie, delle idee e delle passioni che non c’entrano nulla con la loro visione della vita. Comprendere e sentire questo è il primo passo. Con una buona quota di coraggio, che dipende solo da quanto lei deciderà di investire su se stessa, su quanta fiducia riporrà nella sua persona, sono sicuro che riuscirà a staccarsi da tutto questo, per intraprendere una nuova strada: inedita, senza garanzie, senza sicurezze, “pericolosa”… ma sua. Solo sua. Ricordi: il fallimento non è sbagliare un esame, ma è tradire ciò che siamo per rendere felici l’Altro. E non c’è cosa peggiore che svegliarsi un giorno, e scoprire che abbiamo vissuto intrappolati nel progetto di un Altro.

I miei auguri.

Dott. Simone Evangelista

Dott. Simone Evangelista Psicologo a Milano

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2 AGO 2021

Cara Mordred, comprendo molto bene la sua sofferenza interiore. Quando il corpo inizia a parlare attraverso i sintomi ci sta inviando un messaggio, che spesso potrebbe essere legato alla direzione che abbiamo dato alla nostra vita. Quando assumiamo le volontà di altri come se fossero nostre, spesso si arriva al punto o di rivoluzionare completamente la propria vita o di manifestare dei sintomi. Ogni crisi, in ogni caso, porta ad un cambiamento. Sicuramente, la sua situazione richiede una psicoterapia, perché da ciò che leggo, penso che ci sia la necessità di scardinare alcuni meccanismi sottostanti che creano le sue difficoltà. Se in questo momento però non ha possibilità di intraprenderla, provi ad utilizzare questo periodo, per capire quali sono i suoi desideri e cosa vorrebbe realizzare, potrebbe scoprire tante cose su di lei e su i suoi interessi. Questo potrebbe aiutarla ad individuare la strada da percorrere, che a questo punto sarà la sua e non quella scelta da altri per lei. Molto utili esercizi di rilassamento o meditativi. Ultima cosa, non accolga il peso che gli altri le scaricano addosso, facendole sentire che ha fallito. Quella è la loro opinione e lei non deve necessariamente farsene carico. Cosa che può fare, da questo momento, è sintonizzarsi con se stessa, e iniziare a scegliere. Le auguro il meglio. Faccio il tifo per lei. Cordiali saluti, dr.ssa Valentina Romeo, psicologa psicoterapeuta.
P.S. Le consiglio una lettura interessante:”Prendi la vita nelle tue mani “ di Wayne W. Dyer .

Dr.ssa Valentina Romeo Psicologo a Roma

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31 LUG 2021

Buonasera,
quanto dolore trasmettono le sue parole... incastrata in una situazione che non ha scelto. I terapeuti che descrive hanno suscitato in lei sentimenti simili a quelli che le provocano i suoi familiari. Questo non è insolito, il fatto è che non è stato possibile analizzarlo con loro. Sono d'accordo con lei che sarebbe opportuno riprendere il lavoro su di sè. Può provare a rivolgersi alla sua Asl territoriale o ad associazioni sempre sul territorio che offrano spazio di ascolto ai giovani. Le auguro giorni più sereni. Dott.ssa Franca Vocaturi

Franca Vocaturi Psicologo a Torino

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31 LUG 2021

Carissima,
Mi dispiace per le vicissitudini interne ed esterne che non la fanno stare bene.
Le consiglierei di intraprendere un percorso psicologico per cercare di riappropriarsi del suo benessere emotivo e psicologico.
Resto a disposizione anche online se vorrà ulteriori informazioni o chiarimenti in merito.
Cordiali saluti.

Dott.ssa Margherita Romeo

Dott.ssa Margherita Romeo Psicologo a Roma

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